Per difendersi dalle aggressioni, ?gli israeliani fanno incetta di spray ?al peperoncino o bastoni. E nel clima di sospetto, cresce la xenofobia

A Gerusalemme, sotto il sole tardo estivo di metà ottobre, sono finiti gli spray al peperoncino. «Mi sono messa in lista d’attesa, forse la settimana prossima arrivano», dice Tsilia Kats - origini russe ma israeliana da vent’anni - fuori da un negozio di casalinghi nel quartiere di Manahe Yehuda.

Nel frattempo la signora rimedierà con uno spray per pulire il forno: è altrettanto tossico e urticante, dice. Gliel’hanno suggerito le amiche su Facebook, dove in questi giorni è tutto uno scambio di consigli sulle migliori armi improprie di autodifesa: mattarelli, naturalmente, ma anche ombrelli con la punta appuntita, borsette appesantite da sassi e perfino aste da selfie. Ma sta vivendo un momento di popolarità anche il Nunchaku, antica arma orientale composta da due bastoni lunghi come avambracci legati tra loro da una catenella , come quelli che usava Bruce Lee nei suoi film: fino a un mese fa erano oggetti per collezionisti, non lo sono più da quando sull’autobus 185 un tizio che li aveva con sé li ha usati per fermare un accoltellamento. Pochi giorni dopo, lo show satirico Eretz Nehederet ha colto l’umore nazionale e si è inventato un inesistente “Neutralising Corp” il cui simbolo è composto da un ombrello, un bastone da aspirapolvere e un Nunchaku incrociati tra loro.

C’è insomma chi prova a scherzare, finché si può.
Ma tra israeliani e palestinesi, dopo la “passeggiata” di 150 coloni di destra nella moschea di Al-Aqsa, il 22 settembre scorso, è iniziata un’escalation di violenze che secondo alcuni sta portando dritti verso una terza Intifadah, dopo quelle del 1987-1993 e del 2000-2003. I connotati di questa sollevazione sono tuttavia inediti: non solo manifestazioni con lanci di pietre, ma soprattutto una nebulosa di azioni individuali, non coordinate tra loro, di singoli palestinesi armati di coltelli che aggrediscono ebrei corpo a corpo; o, in alternativa, tentativi di strage alla guida di automobili lanciate contro la gente che aspetta l’autobus.

Gli autori di questi attacchi sono quasi tutti giovanissimi, non hanno precedenti penali né risultano essere mai stati attivi in gruppi politici. Le loro azioni sono spesso suicide, perché l’esercito spara con estrema facilità a ogni aggressione (e non solo), tanto che finora i morti della nascente Intifadah sono stati una decina tra gli israeliani e il triplo fra i palestinesi.

L’intelligence di Gerusalemme, che da tempo ha infiltrato le formazioni estremiste pensando che fosse la strategia migliore, si trova invece spiazzata: nessuno riesce a prevedere un attacco da parte di ragazzi che non hanno mai militato in nessuna formazione. Alcuni di loro sono stati convinti all’azione da attivisti più grandi con cui sono entrati in contatto in Internet, ma nella maggior parte dei casi si tratta di attacchi spontanei, emotivi o emulativi, come ammettono le stesse autorità israeliane.

In ogni caso, il sofisticato apparato hi-tech del governo di Gerusalemme (sensori, satelliti, droni, piccole mongolfiere spia senza pilota, migliaia di videocamere comprese le 320 che sorvegliano la Città vecchia) non riesce a evitare questi nuovi attacchi molecolari, diffusi e individuali che sono invece decisamente low-tech, fatti cioè di coltelli da cucina o utilitarie gettate a bomba contro i passanti.

Intanto l’ondata di violenze e reazioni sta già provocando danni nella coscienza di entrambe le società, quella palestinese e quella israeliana.

Nella prima, alla frustrazione per 48 anni di occupazione militare si assomma adesso la rabbia per le ultime decisioni del governo Netanyahu: dalla scorsa settimana interi quartieri di Gerusalemme est possono essere blindati e sottoposti a coprifuoco discrezionali; le case dei familiari degli aggressori d’ora in poi non solo verranno demolite, ma non potranno più essere ricostruite negli stessi luoghi; ai parenti verranno inoltre sequestrati i beni dei presunti terroristi, morti o arrestati che siano: una decisione che l’esecutivo definisce «dissuasiva» ma che assume per i palestinesi i connotati di una vendetta trasversale contro madri, mogli e bambini; infine, alle famiglie dei palestinesi uccisi dall’esercito non saranno più restituiti i corpi dei loro cari, sepolti invece in fosse anonime: anche qui, il governo dice che è per impedire rabbiosi funerali di strada che talvolta si trasformano in cortei violenti, ma per i palestinesi è invece un’altra vessazione imposta dai più forti.

Ma il nuovo clima ha fatto danni anche dall’altra parte, cioè nella società civile israeliana che si sente sempre più sotto assedio. C’è stato un boom dei corsi di Krav Maga (una tecnica di lotta corpo a corpo inventata proprio in Israele una sessantina d’anni fa) e di richieste per il porto d’armi (il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat ha invitato chi può a «portarsi sempre dietro una pistola»). E nel Paese si sta diffondendo un razzismo anti-arabo che non si era visto neppure nei momenti più difficili. Basta avere un “volto sospetto” per essere fermati e a lungo perquisiti, o semplicemente perché gli israeliani si allontanino, nei locali pubblici come per strada. Molti palestinesi che lavorano regolarmente a Gerusalemme ovest in questi giorni non si fanno vedere nei negozi in cui fanno gli inservienti o negli ospedali dove sono portantini: temono di essere scambiati per terroristi, di essere fermati dalla polizia o, peggio, di essere a loro volta vittime di violenze. Una giornalista israeliana, Tamar Pileggi, ha raccontato nel suo blog il caso di un condominio di Tel Aviv dove sono spuntati cartelli per mettere in guardia dalla presenza di un “inquilino arabo”. Lo scrittore liberal Gideon Levy ha denunciato che «Gerusalemme sta diventando la capitale dell’apartheid».

Non mancano in questo senso episodi tragici (un eritreo di 29 anni, Haftom Zarhum, ucciso a botte dalla gente perché «sembrava un terrorista», a Beer Sheva) o al limite del grottesco, come quello accaduto all’Ikea di Kiryat Ata dove un israeliano ha preso a coltellate un altro ebreo scambiandolo per un terrorista palestinese. Più in generale, la sindrome del nemico infiltrato per strada sta generando negli israeliani comportamenti nuovi: ronde di quartiere, ad esempio, ma anche raccolte di fondi per affittare poliziotti privati con cui far uscire i figli di pomeriggio, quando non c’è scuola e i genitori sono al lavoro.

A proposito, in questa nascente terza Intifadah colpisce il fatto che molti degli aggressori siano ragazzini: ha ad esempio 15 anni la ragazza palestinese bloccata giovedì 15 ottobre mentre stava andando da Beer Sheva a Gerusalemme per accoltellare qualcuno a caso, purché israeliano; ha 13 anni Ahmed Mansara, il ragazzino arabo che tre giorni prima aveva aggredito a coltellate un coetaneo ebreo che passava in bicicletta, finendo poi a terra ferito dai mitra israeliani; e ha 17 anni il ragazzo ebreo di Dimona che due settimane fa ha cercato di uccidere a coltellate quattro palestinesi, pure loro presi a caso, per poi spiegare alla polizia che «tutti gli arabi sono terroristi».

Spesso quando ci si trova di fronte a un conflitto incrostato da decenni si dice che a far la pace “ci penserà la prossima generazione”. Ma tra Palestina e Israele, oggi, questo sembra essere lontanissimo dal vero.