Le placche della malattia si accumulano nel cervello molto tempo prima che inizino i sintomi. E intervenire subito può ridurre di molto ?i futuri danni. I passi avanti nella ricerca contro la demenza senile

Un nuovo caso di demenza ogni tre secondi, per un totale di quasi dieci milioni di diagnosi ogni anno. E 47 milioni di malati in tutto il mondo. Cifre destinate a crescere a un ritmo sempre più incalzante, stando ai dati del Rapporto Mondiale Alzheimer 2015: tra quindici anni, infatti, il numero di persone affette da demenza sarà il doppio rispetto a oggi. E nel 2050 toccherà quota 130 milioni, sempre a livello globale.

Di pari passo, o addirittura più velocemente, salirà il prezzo sanitario, economico e sociale della malattia: la demenza costa oggi, a livello globale, poco meno di 800 miliardi di euro l’anno (se fosse una nazione, sarebbe la diciottesima economia del mondo) e, secondo le previsioni, la cifra arriverà a mille miliardi nei prossimi tre anni. Una vera e propria «emergenza sanitaria globale», come la hanno descritta gli esperti dell’Alzheimer’s Research Uk, tracciando uno scenario, se possibile, ancora più fosco: il 32 per cento dei nati nel Regno Unito nel 2015 (il 27 per cento degli uomini e il 37 per cento delle donne), stando alle loro stime, contrarrà una forma di demenza durante la propria esistenza. Cause principali del fenomeno, l’aumento dell’aspettativa di vita e l’invecchiamento della popolazione, uniti a fattori di rischio noti come diabete, malattie cardiovascolari, fumo e scarso esercizio fisico.

Tra le forme di demenza, la più temibile e diffusa è la malattia di Alzheimer, che ne rappresenta oltre la metà e colpisce, solo in Italia, oltre mezzo milione di persone. Si tratta di un grave disturbo degenerativo ancora inguaribile, i cui primi sintomi appaiono in genere dopo i 65 anni, caratterizzato dalla morte progressiva delle cellule cerebrali. La malattia, inizialmente, si manifesta con perdita di memoria, soprattutto relativa a informazioni apprese di recente, ed evolve fino a interferire drammaticamente con la vita quotidiana: chi ne soffre, tra le altre cose, tende a perdere l’orientamento, ha difficoltà nel parlare e nello scrivere; inoltre spesso sviluppa cambiamenti di umore e personalità. Sintomi che, alla fine, si aggravano tanto da rendere il malato di Alzheimer non autosufficiente e totalmente dipendente dagli altri.

Una malattia invalidante e micidiale della quale, per ora, «sappiamo tutto e niente», come ci spiega Antonio Guaita, geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso, vicino a Milano: «Fin dagli anni Ottanta è noto che la morte delle cellule cerebrali tipica del morbo di Alzheimer è associata all’accumulo di placche amiloidi nel cervello», grumi composti, per l’appunto, da una proteina detta beta-amiloide. «Successivamente si è scoperto che il fenomeno, probabilmente, è legato a un meccanismo di difesa del cervello stesso, che cerca in questo modo di ridurre la tossicità della proteina, che è massima per la parte libera. Ma ancora non sappiamo quale sia, di preciso, l’origine dell’accumulo delle placche».

È proprio su questi punti (la causa dell’accumulo di beta-amiloide e il suo ruolo effettivo nel decorso della malattia) che si sta concentrando la ricerca. Con diversi risultati significativi: uno studio pubblicato sul “New England Journal of Medicine”, per esempio, ha preso in esame un gruppo di pazienti con Alzheimer ereditario, soggetti con nota predisposizione genetica allo sviluppo della malattia (alcune forme del cosiddetto “early Alzheimer onset”, che rappresenta l’1 per cento circa dei casi totali), scoprendo che la quantità di beta-amiloide nel cervello comincia ad aumentare già quindici anni prima dell’esordio dei sintomi, per poi restare stabile o ridursi in modo lieve quando si manifesta la malattia. In ogni caso, precisa ancora Guaita, «sembra non ci sia correlazione tra estensione della diffusione di beta-amiloide e gravità dei sintomi, il che indica come forse la causa reale della malattia sia un’altra. Possiamo stabilire con una certa sicurezza che in assenza di placche la malattia non si sviluppa - a meno di rarissimi casi - ma probabilmente l’accumulo di beta-amiloide è una concausa dell’Alzheimer, che si manifesta in presenza di altre condizioni scatenanti».

“Attaccare” la beta-amiloide libera, non cristallizzata nelle placche, sembra per ora comunque la strada più promettente per lo sviluppo di una terapia per l’Alzheimer. Uno dei risultati più incoraggianti viene dalla sperimentazione di una molecola biologica, il solanezumab, che nei trial clinici preliminari ha mostrato una certa efficacia nella riduzione di beta-amiloide su pazienti nelle prime fasi della malattia, rivelandosi però poco valido quando il decorso è più avanzato.

Per questo motivo è particolarmente importante, continua Guaita, diagnosticare l’Alzheimer il prima possibile: «La beta-amiloide, probabilmente, è equivalente a un fiammifero acceso che innesca l’incendio in un bosco. Intervenire sul fiammifero quando il fuoco è già esteso non ha molto senso». A questo scopo, gli scienziati sono alla ricerca di tutti i possibili marker biologici della malattia, come l’analisi del liquor prelevato tramite puntura lombare, una serie di risonanze magnetiche cerebrali per valutare l’assottigliamento della corteccia dell’ippocampo e la risposta a test neuropsicologici e di memoria. Combinando opportunamente tali informazioni, spiega Guaita, potrebbe essere possibile, in linea di principio, discernere il tipo di demenza e capire come intervenire.

Nel frattempo, mentre gli scienziati lavorano a queste terapie, le istituzioni stanno sperimentando nuovi approcci a supporto dei pazienti e, soprattutto, di chi se ne prende cura. Anche l’Italia si sta muovendo in questa direzione: i ministeri dell’Interno, della Salute e del Lavoro e il Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse hanno infatti appena firmato un protocollo d’intesa per scongiurare il pericolo che un soggetto colpito da Alzheimer (o altro tipo di demenza) si smarrisca e non riesca più a tornare a casa. Si tratta di un dispositivo elettronico da portare al collo o alla cintura, dotato di Gps per la localizzazione satellitare, che invia un messaggio di allerta quando chi lo indossa si allontana da un perimetro predefinito. Se i primi tentativi di rintracciare il malato non vanno a buon fine, il dispositivo avvisa tempestivamente la sala operativa delle forze di polizia.