Sembra arrivato il tempo delle decisioni per la politica estera italiana. Ecco quali sono le opzioni per rendere davvero efficace un intervento occidentale e la partecipazione del nostro Paese

L’Europa si è finalmente accorta della Libia. Eppure a 350 km dalle coste italiane c’è una guerra civile in corso fin dal maggio scorso che ha fatto già tremila vittime (in proporzione, molte di più dell’Ucraina) e allontanato dalle proprie case più di 400 mila persone.

Sebbene in ritardo, sembra arrivato il tempo delle decisioni per la politica estera italiana, soprattutto alla luce del Consiglio di Sicurezza Onu al quale l’Egitto ha chiesto la creazione di una missione militare internazionale che legittimi la sua battaglia contro lo Stato Islamico in Libia. Una richiesta che sembra non essere stata accettata dagli Stati Uniti e dagli europei che nella serata di martedì hanno pubblicato un comunicato congiunto che pone al primo posto la creazione di un governo di unità nazionale in Libia.

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Sebbene il dibattito in Italia sia stato su “intervento sí o no”, non esiste una politica univoca, prendere o lasciare. Ci sono diverse sfumature di grigio e alcune davvero notevoli come evidenziato dalle differenze tra l’Egitto e i suoi alleati occidentali. Semplificando, siamo di fronte a due opzioni che forniscono una combinazione diversa tra due priorità: far cessare la guerra civile e combattere lo Stato Islamico.

La prima opzione, che emerge dal comunicato congiunto occidentale, prevede di lavorare per far cessare la guerra civile per meglio combattere l’Isis. Secondo questo piano, serve prima un governo di unità nazionale, accompagnato da un cessate il fuoco tra le diverse milizie e poi, semmai, da un intervento internazionale di peacekeeping per garantire la sicurezza del governo unitario. Per arrivare a ciò, bisognerebbe che l’attuale percorso coordinato dall’inviato speciale Onu Bernardino Leon avesse successo.

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In realtà, i colloqui tra le diverse fazioni libiche iniziati la scorsa estate si sono rivelati molto complicati perché la guerra libica è solo un episodio di una più vasta guerra regionale tra l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti da un lato e la Fratellanza Mussulmana, la Turchia ed il Qatar dall’altro. Non a caso, la Libia ha ora due governi: il primo, riconosciuto anche dall’Occidente, con sede a Tobruk, sostenuto ed armato da Egitto ed Emirati. Il secondo, senza alcun riconoscimento internazionale, che fa riferimento al fronte più islamista.

La guerra civile in Libia ha già visto un significativo intervento esterno sotto forma di raid aerei attribuiti sia agli Emirati che all’Egitto e con forniture di armi sia al governo di Tobruk sia ad alcune milizie del fronte opposto. È questa tendenza che verrebbe accentuata se si avvallasse la richiesta egiziana al Consiglio di Sicurezza.

La seconda opzione in campo, sostenuta appunto dall’Egitto che aveva trovato inizialmente una convergenza con la Francia, prevede che l’Occidente si schieri con piú decisione a favore del governo di Tobruk, di fatto rinunciando per il momento alla formazione di un esecutivo più inclusivo e schierandosi nella guerra civile libica con l’obiettivo di combattere l’Isis. L’intervento Onu, ammesso che il Consiglio di Sicurezza dia il via libera, si svolgerebbe su richiesta del governo di Tobruk e vedrebbe molto probabilmente l’ostilità di tutte le altre fazioni.

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Il ministro Pinotti, nella sua intervista al “Messaggero” di sabato, ha detto che l’Italia dovrebbe avere la guida della missione, «come in Libano». Il problema è che, se si scegliesse la seconda opzione, la guerra di Libia del 2015 assomiglierebbe sí al Libano, ma a quello del 1982 quando gli italiani per la prima volta dopo gli anni Sessanta mandarono i loro soldati in una missione di peacekeeping per trovarsi poi intrappolati in una guerra civile senza esito certo, costretti a proteggere se stessi piuttosto che a portare la pace.

Non a caso, dopo le prime dichiarazioni battagliere dei nostri ministri, è arrivata una correzione di rotta prima con l’intervista di Renzi al TG5 di lunedì e poi con le dichiarazioni di Gentiloni alla Camera di mercoledì, con in mezzo il comunicato congiunto dei maggiori governi occidentali.

Rimane ovviamente aperta la domanda di come è quindi meglio combattere l’avanzata dello Stato Islamico in Libia.

La battaglia contro l’Isis è tanto fondamentale quanto lunga. Daesh, com’è conosciuto dal suo acronimo arabo, è infatti come un cancro maligno che, se male operato, rischia di estendersi. È un fenomeno che si nutre di guerre civili e di comunità politiche non inclusive e che usa la comunicazione per “chiamare” sul suo terreno le forze esterne, a partire dagli occidentali e dai regimi arabi a loro alleati.

È importante quindi saper scegliere l’opzione giusta, evitando di entrare in Libia pensando di fare il peace-keeping per poi ritrovarsi in una guerra civile, lasciandosi entusiasmare da un ruolo di “guida della missione Onu” che finora l’Italia sembra essersi autoattribuita.

Questo non vuol dire che non serva anche l’uso della forza contro Isis. Sarebbe come dire che la mafia si combatte a mani nude. Ma questa dev’essere in primo luogo una battaglia delle forze libiche anti-jihadiste. Una possibilità concreta, come dimostrato dalla riconquista di Sirte da parte delle milizie di Misurata. La battaglia militare, che è necessaria, è solo una componente di una strategia più ampia contro le organizzazioni islamiste violente.

Il secondo elemento é l’inclusività politica. Serve davvero che si formino governi e istituzioni che rappresentano tutti i cittadini e non siano l’espressione di una minoranza. È vero in Libia ma anche in Siria e in Iraq.

Il terzo elemento, é la lotta all’ “economia criminale” dello Stato Islamico: il contrabbando di petrolio e altri prodotti, l’assalto alle banche, i rapimenti, le estorsioni, la riduzione in schiavitù ma anche l’ “Isis dei colletti bianchi” composto da tutti quei ricchi finanziatori del jihadismo che si muovono ancora con troppa disinvoltura tra il Golfo Persico e l’Europa. Davvero l’Italia non ha competenze da spendere in questo campo?


Infine, servono “patti chiari e amicizia lunga” con le potenze regionali. Forse le connivenze con il jihadismo da parte di certi governi sono finite, ma non sono cessate le politiche di esclusione di alcune minoranze e di restrizione degli spazi politici che alimentano il terrorismo. Come indicano le indagini globali sul terrorismo, questo é un fenomeno che nel 90 per cento dei casi ha luogo in Paesi dove ci sono restrizioni alle libertà fondamentali. Bisogna affrontare il problema senza subalternità ma anche senza avere l’aria di chi sta dando lezioni agli altri. È l’Europa per prima che, con la scusa della lotta al terrorismo, é diventata meno aperta e meno democratica. Così i terroristi hanno già vinto.

Mattia Toaldo é policy fellow presso lo European Council on Foreign Relations di Londra. Studia da anni l'evoluzione della situazione libica

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