Madre del piccolo Pierpaolo e moglie di Aurelio, un dirigente della Breda, Rina Alberici ha lasciato una testimonianza autobiografica sul 25 aprile priva di entusiasmi. Nelle ore che accompagnano la Liberazione, ore che definisce “della caccia all’uomo, sanguinosa e fratricida”, un pericolo di morte minaccia la sua famiglia: Aurelio è stato sequestrato dagli operai insorti

Il diario di Rina Alberici (foto di Luigi Burroni)
Io e Pierpaolo (il figlio di Rina, ndr) sembravamo due senza fissa dimora; la maggior parte del tempo lo passavamo per strada, scrutando qua e là in attesa di un arrivo. Un pomeriggio, guardando verso viale Umbria vidi stagliarsi nella luce fra gli alberi una sagoma e mi parve di riconoscere Aurelio. “Non è lui” mi dissi “Aurelio non viaggia in bicicletta”. Quell’uomo pedalava piuttosto forte tenendo il manubrio con una sola mano poiché nell’altra aveva una ciambella con coperchio per W.C.

Scuotendo la manina Pierpaolo gridavo: “Guarda è papà, papà; Aureliooo” e scoppiai a piangere. Aurelio stava bene, non aveva né fame né sete; in quei tre giorni, rinchiusi nei sotterranei, mangiarono e bevvero come nababbi; non gli fecero mancare neppure il fumo. Secondo gli “aguzzini” si trattava degli ultimi pasti della loro vita. […] All’entrata in Milano degli americani gli operai misero in atto repentinamente la loro “rivolta”; già armati (un’organizzazione fatta a regola d’arte) presero possesso di tutto lo stabilimento (Breda, dove lavorava Aurelio, ndr) convogliando il personale dirigente o con alte cariche nei sotterranei che avevano funzionato come rifugi antiaerei. Il Comitato promotore disponeva della lista di coloro su cui pendevano i capi d’accusa; di mano in mano ne prelevarono quattro o cinque, ma non facevano più ritorno. Aurelio, fra i rinchiusi, quando sentiva l’appello gli sembrava che il cuore volesse scoppiargli. Ne furono prelevati una quarantina circa; non era difficile immaginare la fine che fecero. Il terzo giorno Aurelio si sentì chiamare, le gambe gli tremavano ed un incaricato gli disse che poteva andare a casa; su di lui non pendevano capi d’accusa. Non gli sembrò vero. […] Uscendo dal cancello dovette scavalcare circa 37 morti fucilati, abbandonati in mucchio per terra. La fretta e la paura non gli diedero la possibilità di riconoscerli; là si fucilava senza regolare processo. Presa una bicicletta qualsiasi incominciò a pedalare, ma visto un posto di blocco si fermò rifugiandosi in un negozio di servizi igienici e per non fare la figura del fuggiasco trattò l’acquisto della famosa ciambella.


Rina Alberici (Pianello Val Tidone, PC, 1916)