La finzione e la realtà. La fama e la paura. Hollywood e l’Italia. A 75 anni, ?il grande attore si racconta. ?E dice: «Ho capito che la vita è solo una lunga sfida per imparare ad adattarsi. Sono cresciuto nel South Bronx, senza soldi e senza un padre. Così il teatro è diventato la mia famiglia. Per questo lo faccio ancora»

Quando superano I 70, molti divi assoldano un ghostwriter che scriva per loro un libro di memorie più o meno piccanti, più o meno interessanti. Ogni tanto fanno una comparsata in un film o a qualche evento di charity, o mondano. Alcuni si illudono di fermare il tempo con l’aiuto - quasi sempre maldestro - dei chirurghi estetici, e continuano a tentare parti dove diventano improponibili, se non imbarazzanti caricature di se stessi. Al Pacino ha seguito un percorso diverso. Non ha mai smesso di fare teatro, per esempio: molto Shakespeare ma anche Eugene O’Neill, Oscar Wilde e David Mamet, di cui sta preparando una nuova rappresentazione a Broadway. Come tanti colleghi, ha fatto le sue battaglie contro alcolismo e depressione. Ha avuto anche fasi, durate anni, in cui sui set del cinema non ha proprio messo piede. Ma un po’ come Michael Corleone, che si era ripromesso di lasciare il “business di famiglia” senza mai riuscirci, c’è sempre stato qualcosa a risucchiarcelo dentro, come un vecchio amore che non tramonta mai. E ora che ha passato - da poche settimane - il traguardo dei tre quarti di secolo, Alfred James Pacino detto Al sembra avere abbracciato con gusto la sua età. Si è messo a esplorare che cosa significhi essere un uomo di 75 anni con una serie di film centrati sul tema dell’età, nei quali è quasi impossibile distinguere tra lui e i suoi personaggi, capire dove finisca il primo e dove inizi l’altro.

Nel 2008, in “Sfida senza regole”, era un vecchio poliziotto. Tre anni fa, in “Uomini di parola”, è diventato un vecchio gangster. L’anno scorso è arrivato “The Humbling”, tratto da un romanzo di Philip Roth dove fa la parte di un vecchio attore che non ricorda più le battute. E ora c’è “Danny Collins”, dov’è una vecchia rock star che si è venduta l’anima per avere fama, soldi e ragazze 50 anni più giovani di lui, che cerca la sua redenzione.
Dici Al Pacino e ti vengono in mente una serie di ruoli memorabili, alcuni interpretati quando aveva 30 anni: Michael de “Il Padrino”, quando era semi-sconosciuto e Francis Ford Coppola dovette battersi a sangue con la Paramount che a metà riprese del primo episodio voleva licenziarlo (non era abbastanza bello); Sonny Wortzik di “Quel pomeriggio di un giorno da cani”; Tony Montana di “Scarface”; Lefty, piccolo capo-banda di “Donnie Brasco”. I nuovi film potrebbero generare una nuova, altrettanto indimenticabile, immagine di Pacino, oltre che il terzo atto di una carriera che include un Oscar, otto nomination, cinque Golden Globes, due Tony e due Emmy. Sono film che esplorano questioni da cui Hollywood di solito si tiene lontana: cosa succede quando sei stato qualcuno e all’improvviso non lo sei più? Quando tu, dentro, ti senti uguale ma tutti ti dicono che no, non lo sei? Quando hai alle spalle tanti anni di successo e così tante esperienze umane e professionali, che cosa conta per davvero?
Come molti timidi, Al può apparire arrogante. Come tutti gli attori, recita anche quando non lo sa. Si è creato attorno un muro protettivo. Ma in questa terza fase della sua straordinaria e molto pubblica vita è più aperto, più vulnerabile, più autoironico. E più riflessivo. Eccolo.

Sono passati 45 anni da quando ha debuttato a Broadway vincendo subito un Tony e da “Panico a Needle Park”, primo film. Le dà ancora piacere recitare?
«Io sono diventato famoso all’improvviso, e per anni è stato come vivere dentro un Big Bang, spesso in stati di alterazione mentale. Senza entrare in troppi dettagli, diciamo che le mie memorie di quei giorni sono un po’ vaghe e che tutto era molto strano. Oggi mi piace recitare anche perché vado alla ricerca di cose con cui ho un legame profondo, con cui poter esprimere ciò che provo. Cerco storie legate alla mia vita, alle mie esperienze: leggendo romanzi e poesia, esibendomi a teatro, lavorando su Shakespeare oppure con orchestre sinfoniche. Potrei permettermi di non lavorare, sono un uomo fortunato, ma finché ci saranno sfide e opportunità, finché mi reggerò in piedi, io ci sarò».

Con la stessa passione di sempre.
«Faccio questo mestiere da 50 anni. Allora gli attori dovevano essere belli, ma poi arrivai io.... Ho avuto i miei alti e bassi, ho persino fatto delle cose soltanto per sopravvivere: può succedere, quando diventi famoso è facile dimenticare perché fai quello che fai, da dove sei partito. Con gli anni ho imparato che nella vita esistono dei cicli, e invecchiando sono entrato in quello in cui voglio fare solo lavori con i quali sento un legame profondo: come “The Humbling” e adesso “Danny Collins”. Mi succede anche con il teatro: per salire sul palcoscenico otto volte in una settimana devi davvero averne voglia, credetemi. A volte ti senti stanco, a volte hai dormito male la notte prima oppure hai qualcosa che ti preoccupa in testa. A volte ti dimentichi le battute o le ripeti, oppure - mi è capitato anche questo - stai facendo Amleto e ti metti a recitare Giulio Cesare. Devi avere qualcosa davvero potente, dentro, che ti spinge a essere come un funambolo e a salire senza rete su quella corda tesa a trenta metri dal suolo. Recitare è diverso dal suonare uno strumento. Quando reciti, sei lo strumento».

Recitare fa ormai parte della sua identità.
«Se sei un attore è inevitabile che la tua storia, la tua infanzia, entrino in quello che reciti. Sì, diventa parte della tua identità. Ma dopo che lo hai fatto per un po’, specialmente se hai una famiglia, dei figli, degli altri interessi, impari a separare le cose: da una parte c’è il mestiere, dall’altra la vita. Almeno credo».

Gli anni non sono passati solo per lei, comunque. È cambiata anche l’intera industria del cinema.
«Film come “Panico a Needle Park” e “Quel pomeriggio di un giorno da cani” oggi sarebbero considerati produzioni indipendenti, ma quando ho cominciato erano gli studios a farli. Adesso conta soprattutto il marketing: se non hai dietro un team che crede nel film e lo promuove nessuno lo va a vedere. Tante cose sono cambiate, nel cinema: una volta per esempio c’era il periodo delle prove, dove imparavi ad affiatarti con la gente con cui dovevi lavorare. Serviva a infondere al film un certo tipo di energia. Oggi non si fa più».

Era il tempo degli attori. Oggi viviamo nell’era delle celebrities.
«Io ho cominciato a recitare perché volevo interpretare più ruoli possibile, non perché volevo diventare famoso: anzi, quando lo sono diventato la cosa più difficile è stato proprio il dover distinguere e capire le relazioni. Non solo con le donne nella mia vita ma con gli uomini, con gli amici, con tutti. Dovevo capire che cosa c’era di autentico e di reale, ero stordito, il mondo mi stava cambiando sotto i piedi. Un giorno ne parlai con Lee Strasberg (il fondatore dell’Actors Studio, ndr), e lui mi diede un consiglio che non ho mai dimenticato: devi adattarti, mi disse. Vero, dobbiamo adattarci. Perfino ai privilegi, infiniti, a tutte le cose che puoi avere quando sei una celebrity, come mi accade ogni volta che entro in un ristorante o salgo su un aereo. Devi capire che in quel riconoscerti c’è anche fiducia in te, apprezzamento, ed è bello. La gente viene da te, ti vuole parlare, pensa di conoscerti anche se tu loro non li hai mai incontrati. È sempre strano: esci di casa e ti ritrovi davanti i pulmini pieni di turisti che fanno foto con i telefonini. È brutto ed è bello. Spesso sono curioso di sapere che cosa ha da dirmi la gente, che cosa pensa».

Non ha mai voglia di sottrarsi, nascondersi?
«Ci sono delle volte che i miei figli mi dicono: papà, tu oggi resti a casa. E perché, faccio io? Tu oggi resti a casa e basta. Il fatto è che se io sono in giro con loro cambia tutto. Insomma li capisco, così a volte - anche se non mi piace farlo - mi camuffo. Metto un cappello, mi infilo un paio di occhiali scuri. Ma non funziona granché. Un tempo sì, ora non più».

Parlando di figli e di famiglia, quando guarda indietro quanto pensa abbia contato l’essere cresciuto in una famiglia italo-americana?
«Vengo da una famiglia del South Bronx che apparteneva alla metà decisamente più bassa della classe media. Non c’era denaro in casa. C’erano i miei nonni e mia mamma, mio padre era assente. Sono cresciuto per la strada, la mia vita era per strada ed è lì che ho fatto le mie prime amicizie. Che sono poi rimaste le più grandi della vita. A 16 anni mi spostai al Village e iniziai a fare le mie prime recite: ne facevamo 16 alla settimana, al termine passavamo con un cestino. Vivevamo di quel poco, ma io amavo quello che facevo, sapevo che era ciò che volevo fare e che a un certo punto le cose avrebbero cominciato a funzionare. Il teatro divenne la mia famiglia e in un certo senso lo è ancora. Ma dove eravamo?».

Alla sua italianità. Alle radici.
«In casa, le sole volte in cui si parlava italiano era quando non volevano che capissi! Mi sarebbe piaciuto impararlo, e mi sarebbe piaciuto imparare altre lingue. Ricordo che a un certo punto andammo a Spoleto. Era la mia prima volta in Italia, fu molto emozionante recitare di fronte a un pubblico italiano. Sono tornato altre volte, finché abbiamo fatto “Il Padrino” in Sicilia. Ed è stato lì che ho iniziato a raccomandare a tutti di andare nel posto da cui viene la propria famiglia. È un’esperienza viscerale, la può vivere solo chi ha avuto genitori immigrati. Non pensavo sarebbe stato così: un’emozione fortissima. Mi sono sentito a casa. E lo stesso è successo a mio figlio, che adesso ha 14 anni. Ne aveva dieci quando siamo andati in Italia assieme, è stato bello e commovente: non voleva più andare via. Mi sento a casa, ripeteva. Siamo a casa, papà».