Al via la corsa per la nomination dei conservatori alla Casa Bianca. Con l’eccentrico miliardario molto avanti a tutti. Grazie alle sue provocazioni
L'obiettivo numero uno è mandare un convincente messaggio agli americani che dice: «Se io sarò presidente, farò questo e quest’altro». L’obiettivo numero due è evitare di autodistruggersi con una battuta fuori luogo o con un atteggiamento che indispone il possibile elettore chiamato a scegliere il prossimo presidente degli Stati Uniti a novembre del 2016. Ma questa volta, queste due semplici regolette non sembrano destinate a funzionare come in passato.
È cominciato per davvero il gran ballo delle primarie del Partito Repubblicano. Con il primo dibattito televisivo a Cleveland ospitato da Fox Tv giovedì 6 agosto. I maggiorenti del partito Repubblicano hanno riscritto le regole per evitare il flop di audience della passata stagione. Ma non hanno potuto prevedere l’imponderabile: per questa campagna sul nastro di partenza delle primarie ci sono 17 candidati, un numero spropositato che da una parte racconta la frammentazione dei conservatori americani e dall’altra dimostra come il partito sia venuto meno alla funzione di selezionare chi aspira ai posti di rilievo nazionale, a cominciare dalla Casa Bianca.
Di tutti i wanna-bepresident solo un paio hanno una audience nazionale: Jeb Bush, non per meriti personali ma per il cognome, e Rand Paul, uno dei porta bandiera dei Tea Party il movimento populista che si è affermato dall’est all’ovest degli Stati Uniti. Gli altri sono importanti personaggi nella nomenclatura, ma la loro forza fino a oggi si è affermata solo a livello locale. Ci sono in corsa senatori (Marco Rubio della Florida, Ted Cruz del Texas, Lindsey Graham del South Carolina) e governatori di uno Stato (Chris Christie del New Jersey, Jim Gilmore della Virginia, Mike Huckabee ex dell’Arkansas, Bobby Jindal della Louisiana, Rick Perry del Texas, Scott Walker del Wisconsin). Ai politici di professione si sono aggiunti un medico afroamericano, Ben Carson, e l’ex Ceo della Hewlett Packard Carly Fiorina.
Nel parterre affollatoprimeggia, non previsto da nessuno, Donald Trump, l’immobiliarista che si è reinventato star della tv (The Apprentice, l’apprendista, dove il culmine è Trump che grida al malcapitato «sei licenziato»): nelle ultime sei settimane è balzato dal 3 al 24 per cento nei sondaggi, primo dei 17 candidati, con il secondo che è solo al 12. Come ha fatto? Prima dicendo che il governo messicano spedisce negli Usa clandestini che sono trafficanti di droga e stupratori; poi puntando il dito contro il senatore McCain e indicandolo come un falso eroe di guerra perché si fece catturare dai vietnamiti (Trump riuscì in vari modi a evitare la guerra); infine, fornendo in diretta televisiva il numero del cellulare del senatore Graham che gli aveva dato dello stronzo (jackass) per le accuse a McCain.
Con Trump in Testa, questa prima fase delle primarie repubblicane è stata, e sarà ancora, all’insegna delle imprevedibilità perché l’immobiliarista ha scelto di essere aggressivo sempre e comunque, tanto che un pezzo da novanta del partito, Newt Gingrich, sostiene che avere a che fare con Trump è come maneggiare la nitroglicerina. Così, i programmi politici sono passati in secondo piano nella preparazione delle campagne: la domanda per tutti gli sfidanti sarà come comportarsi con Trump. Le alternative sono poche e ciascuna ha pericolose contro indicazioni. Ignorarlo criticando solo il presidente in carica Obama e la candidata democratica Hillary Clinton? Mossa sbagliata che fa pensare a una fuga dal confronto. Rispondergli per le rime? C’è il rischio della rissa e questo va solo a beneficio di Trump. Provare a discutere in modo pacato? Mission impossible.
Se tutti i candidati alle primarie repubblicane hanno la strada in salita, Trump ha già ottenuto un grande risultato: essere sulle prime pagine quasi tutti i giorni, oltre che primo nei sondaggi. Lui che ha fatto del suo cognome un brand non può che avere comunque dei benefici da una campagna urlata e condita di insulti, mentre gli altri candidati sono la fotografia più nitida di un partito conservatore che ha perso da tempo la bussola ondeggiando tra spinte populiste e ricette che non funzionano più.
Non fossero sufficienti le sortite di Trump, a scaldare la campagna, c’è anche la minaccia “nucleare”. Trump ha fatto sapere che è pronto a lasciare i repubblicani e a correre come indipendente. Significa che gli basterebbe prendere un 3-4 per cento di voti per offrire una chance più che reale ai democratici di rimanere altri 4 anni alla Casa Bianca.