La nostra testata compie sessant’anni. Una mostra ripercorre gli eventi cruciali che hanno segnato i destini dell’Italia, del mondo. E del settimanale
Chi era la ragazza coraggiosa messa in croce? In croce come Gesù, e però femmina, incinta e nuda. Drammatica, con quella luce livida, e insieme dolce. La chioma nera che scende sul petto pallido, la morbida curva del ventre teso dalla gravidanza, le braccia snelle, l’ombra scura del pube.
Era la copertina dell’“Espresso” del
19 gennaio 1975, e fece un putiferio, tra governo Moro, mondo cattolico, gerarchie vaticane. Il titolo era “Aborto: Una tragedia italiana”. E fu l’inizio, in un’Italia clericale arretrata sul piano del costume e dei diritti, di una grande campagna di civiltà: il diritto delle donne a fuggire l’aborto clandestino, a non dover commettere un reato penale, a vedersi riconosciuta la sovranità sul proprio corpo. Non si dimentichi che, durante la battaglia per l’aborto sicuro, il segretario del Partito radicale Spadaccia era stato arrestato, la polizia caricava i cortei e perquisiva le redazioni, il segretario Dc Amintore Fanfani chiedeva atti di censura su stampa e cinema. La campagna culminò con la legge 194 del 1978 che legalizzò l’aborto, e il referendum dell’81 che lo difese con successo dagli attacchi dell’Ancien régime.
[[ge:rep-locali:espresso:285163389]]Preistoria? Quasi. Non c’era Photoshop, nel 1975. Era tutto vero. Vera la modella incinta e dolente, scelta dal fotografo Dante Vacchi, un satanasso che aveva seguito la guerra d’Algeria per “Paris-Match”. Vera la tempesta politica provocata da
Livio Zanetti direttore e
Franco Lefèvre editor fotografico: seminato coraggio, raccolta tempesta.
La
campagna contro l’aborto clandestino fu, come quella
per il divorzio, un pilastro del battagliero “Espresso” anni Settanta, e quella copertina, con la sua forza iconica (poi ripresa, variata, citata in campagne femministe, nella fotografia d’arte, nella performance) entrò nella storia del giornalismo d’inchiesta e di denuncia.
Perché ricordare tutto ciò, nel 2015? Perché “L’Espresso”, che
venerdì 2 ottobre compie 60 anni, quel giorno inaugura nelle sale del
Vittoriano, a Roma, una grande mostra, “La nostra storia”, ovvero: “60 anni in Italia e nel mondo attraverso le fotografie dell’Espresso”.
Curatore è
Bruno Manfellotto, che ha organizzato intorno a otto stanze tematiche circa 350 tra foto d’autore, copertine, disegni e bozzetti originali, un ricco materiale escavato (da
Tiziana Faraoni con i colleghi del servizio fotografico) dall’archivio storico del giornale.
Avranno spazio
filmati tematici provenienti dalle Teche Rai e
video-interviste con protagonisti della storia del nostro settimanale, dai fondatori, Arrigo Benedetti e Eugenio Scalfari, fino a Roberto Saviano, passando per Alberto Moravia, Goffredo Parise, Camilla Cederna, Giorgio Bocca.
Il tutto al Vittoriano, sì, altra scelta non ovvia, in stile “Espresso”: proprio sotto l’Altare della Patria che il nostro critico di architettura Bruno Zevi aborriva, e la scrittrice Marguerite Yourcenar (non solo nella sua fase filo-romana e filo-cesarea) trovava invece affascinante.
Cosa vedrete ne “La nostra storia” a cui, cari lettori, fedeli e intermittenti, siete affettuosamente invitati? Qui non vi diciamo tutto, per non guastarvi il piatto forte con troppi aperitivi. Ma insomma, le
copertine più toste e famose non mancheranno, da quelle sull’eterna mafia a quelle sull’Andreotti vampirico, dal sacco di Roma ai Kennedy, da Craxi a Berlusconi, dalle Twin Towers ai nuovi fanatismi.
La parola, anzitutto, al curatore. Così riassume il tutto Bruno Manfellotto (che ha diretto il giornale fino all’ottobre 2014, quando è subentrato Luigi Vicinanza): «Non volevamo creare un evento celebrativo. Ma una storia per immagini, d’Italia e internazionale, così come “l’Espresso” l’ha raccontata, a volte anticipata, spesso interpretata. Una storia, divisa per temi, dell’evoluzione della nostra società, dagli anni del boom fino alle nuove sfide della globalizzazione. I singoli capitoli vogliono cogliere i punti di svolta e le modificazioni profonde, nella politica, nell’economia, nel costume e nei grandi fatti culturali. In sessant’anni s’è vista la politica virare in antipolitica, ma prima c’è stato molto altro: scandali, inchieste, il centro-sinistra, il Sessantotto, i misteri d’Italia, rotture e innovazioni. E “l’Espresso” sempre a cercare di capire raccontando...».
Molte immagini, davvero (lo vedrete). Alcune celeberrime, altre sorprendenti per i più giovani. Ma dietro le immagini sempre tanto giornalismo di scrittura, e scrittori prestati al giornalismo. Fa quasi impressione sfogliare l’elenco degli autori che questo giornale ha ospitato in sessant’anni: A come Giulio Carlo Argan, B come Tahar Ben Jelloun, C come Piero Calamandrei, D come Jean Daniel, E come Umberto Eco, F come Franco Fortini, G come André Glucksmann, H come Eric Hobsbawm... Tanto per dire.
Per capirci, “l’Espresso” era quel giornale che mandava il romanziere
Alberto Moravia a Houston a raccontare la missione sulla Luna dell’Apollo 11. E faceva scrivere il professor
Eco di pornografia, o
Pier Paolo Pasolini del rapporto tra studenti e poliziotti, o
David Grossman dell’Intifada palestinese, o
Tiziano Terzani di Pol Pot, o lo psicoanalista
Cesare Musatti del perché è importante saper ridere. È anche per ricordare che le fotografie mostrano le immagini di come siamo cambiati, noi, l’Italia, il mondo; ma dietro le foto indagarono e faticarono, su tastiere anche scomode, tanti cuori di cronisti e narratori.
Faremo giusto qualche esempio. E magari, così, come saporosa entrée in chiave storica (ma attenzione: la mostra non avrà ordine cronologico) diamo una sommaria descrizione della sala 1, titolo “C’era una volta il boom”. Ebbene, qui si racconta com’era ancora spaccata in due l’Italia, agli albori del
boom economico che sancì la definitiva uscita dal nostro lungo, faticoso dopoguerra. Abbiamo le foto degli impianti d’avanguardia della Olivetti di Ivrea (Adriano Olivetti fu nel 1955 tra i primissimi finanziatori del progetto “Espresso”), abbiamo le curvacee miss Italia che incedono allegre e baldanzose, Mike Bongiorno amerikano e sorridente nei proto-studi televisivi di “Lascia e raddoppia”. E abbiamo gli operai che scavano gli ultimi metri del traforo del monte Bianco, a unire Italia e Francia in un abbraccio anche proletario.
Ma ecco una parete che, vista con gli occhi del 2015, farà impressione. Sono squarci fotografici da diverse situazioni del nostro
Sud. Bambini scalzi e donne dalle gambe infangate nei vicoli in pietra di una Calabria arcaica. Braccianti dalle facce di cuoio, intagliate da mille rughe. Raccoglitrici di olive (siciliane?) che guardano in macchina esauste, nei loro abitini stinti, i volti larghi cotti dalla fatica. Fanno pensare alle teste Maya dell’arte precolombiana, paiono peruviane, o ecuadoregne, e d’italiano, secondo l’estetica attuale, non hanno nulla. Non a caso “l’Espresso” intitolò allora una sua inchiesta “L’Africa in casa”. Sì, negli anni del boom l’Italia era spaccata in due davvero, e molto più profondamente di quanto pur ci impressionino gli allarmi e le statistiche di oggi. Basti pensare che nei Sassi di Matera – grotte malsane, allora, non bed & breakfast – campavano intere famiglie, mentre al Piccolo Teatro Giorgio Strehler sperimentava con Luchino Visconti e Valentina Cortese ingioiellata come la Begum dell’Aga Khan...
[[ge:rep-locali:espresso:285597985]]Un altro esempio, per ingolosirvi, o lettori, può essere la sala terza, intitolata “
La rabbia, la rivolta, il piombo”. Qui si illustra ciò che scosse il mondo giovanile, dagli anni Sessanta, nelle sue più varie forme. Da celebri reporter e grandi agenzie ecco la guerra del Vietnam, donde Tiziano Terzani inviava le sue incisive corrispondenze per “Der Spiegel” e “l’Espresso”. Ci sono le foto e le copertine del Sessantotto, inteso come rivoluzione del costume e dei valori prima ancora che sovvertimento dello Stato borghese. E quindi gli studenti e prof in California e quelli del Maggio francese intorno alla Sorbona; e naturalmente il Sessantotto nostro italianissimo, con i suoi nuovi eroi e antieroi. Troverete la celebre lettera di Pasolini sugli studenti figli di papà. E belle immagini della cultura hippy, o controcultura, che “l’Espresso”, nel suo afflato laico-libertario, fu tra i primissimi a cogliere, in Italia. Per finire, o non finire (perché il Sessantotto, unico caso al mondo, in Italia non durò un anno ma quindici) con la deriva terrorista e le Brigate Rosse.
È evidente che non sarebbe una mostra sull’“Espresso” se non dedicasse adeguato spazio ai cosiddetti
misteri d’Italia. Troverete la loro narrazione visiva nella stanza 5. Ce ne sarà per tutti i gusti, semplici, doppi, complottardi e dietrologici. Il caso Sifar con il piano golpista del generale De Lorenzo; le bombe fasciste, da piazza della Loggia e Bologna; monsignor Marcinkus e i misteri della finanza vaticana; la censura sull’incidente aereo di Ustica e i suoi retroscena internazionali; il terribile caso Calabresi che turbò Milano e l’Italia per decenni, tra depistaggi, servizi segreti, anarchici innocenti, demonizzazioni, confessioni tardive.
E poi (contentatevi di un accenno) la mostra offrirà ghiotto materiale su quel complesso di temi che potremmo riassumere come le
nuove minacce planetarie. E cioè le ultime ondate del terrorismo internazionale, la sfida islamista, l’attacco al modello America, in generale il trauma della globalizzazione, in senso politico, economico, religioso, e i paralleli grandi rischi dell’ambiente e del clima. In quattro parole, da Saddam Hussein allo Stato Islamico, dal terremoto dell’Irpinia allo tsunami asiatico.
Non manca, infine, l’apporto di chi le copertine dell’“Espresso” le disegnò, perché per molti anni qui si lavorò in assenza di computer, che non esisteva ancora. I lettori meno giovani ritroveranno immagini cronistiche, satiriche, anche poetiche, di
artisti e grafici di diversa scuola, come Altan che ancora oggi ci accompagna, come Tullio Pericoli, o Franco Originario, o Sebastian Krüger. Perché forse l’avete dimenticato, ma è esistito un tempo in cui per disegnare non si usavano il mouse e software grafici avanzati, ma matite, penne e pastelli. Si scriveva sull’Olivetti Lettera 22 (i più chic; gli altri sulla 32). E il giornalismo c’era lo stesso, e si campava ugualmente, e forse, chissà, non peggio di ora.