Il nostro Paese è uno dei pochi in Europa a non averlo. Ma così circa il 13 per cento dei lavoratori, nelle aziende che non recepiscono i contratti nazionali, resta scoperto. Si tratta di circa due milioni di persone. Che finiscono per rasentare la povertà pur avendo un lavoro

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E' uscito dal Jobs Act, la ventilata legge delega non si è vista, Confindustria e sindacati ne parlano malvolentieri. E così il salario minimo è di nuovo desaparecido, l'Italia resta uno dei pochi paesi dell'Unione europea a non averlo, insieme ad Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Cipro, mentre in questi giorni è uscito il primo bilancio sull'applicazione in Germania, avvenuta a partire dal gennaio 2015, con un giudizio ed effetti più che positivi.

In America il presidente Obama ha lanciato una campagna per alzare il minimo salariale a livello federale dagli attuali 7,25 dollari, ma viene osteggiato dai repubblicani anche se in città come Los Angeles, San Francisco e Seattle il compenso di base è già stato portato a 15 dollari. In Gran Bretagna uno dei cavalli di battaglia del nuovo leader laburista, Jeremy Corbyn, è di portarlo a 10 sterline l'ora. In Europa si oscilla dai 174 mensili della Bulgaria ai 1921 del Lussemburgo, quello medio dell'Unione a 27 è di 4,6 euro all'ora, che salgono a 7 nell'eurozona. In Italia non c'è, circa tre milioni di lavoratori restano “esclusi”.
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Ma andiamo con ordine. Il salario minimo viene normalmente stabilito per legge e dovrebbe impedire che la retribuzione scenda sotto un livello considerato dignitoso e garantire meno disuguaglianza. Non è uno strumento di lotta alla povertà, dove agiscono piuttosto i sussidi. Riguarda solo chi ha un lavoro, di qualsiasi genere, nulla c'entrano quindi il reddito minimo o quello di cittadinanza al centro del dibattito politico.

In Italia non esiste perchè le parti sociali hanno sempre preferito trattare loro e arrivare a contratti nazionali che già garantiscono, settore per settore, una retribuzione minima. Per Susanna Camusso, leader della Cgil, «il contratto nazionale è uno strumento insostituibile». In realtà, poi, non tutte le aziende recepiscono gli accordi contrattuali (vedi la Fiat, ma non solo). «Il problema – come spiega Lorenzo Cappellari, docente all'Università Cattolica di Milano – è che il 13 per cento dei lavoratori risulta scoperto, con punte molto alte nel settore delle costruzioni e del turismo».
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Si tratta di circa due milioni di persone, che la crisi economica ha ancor più schiacciato e che rasentano oggi la povertà pur avendo un lavoro. L'alibi usato dalle parti sociali per evitare una legge a riguardo è che i minimi tabellari dei contratti vigenti (per chi un contratto ce l'ha) sono abbastanza alti (vedi la tabella acclusa) e quindi un minimo per legge rischierebbe di compromettere gli accordi. In realtà, come fa osservare Cappellari avendo sotto mano i dati Inps, «il 10 per cento dei lavoratori guadagna meno di sette euro, il 4 per cento addirittura meno di cinque euro all'ora», persone che subiscono il datore di lavoro e non hanno tutele.

Lavoratori di serie B o C. Le varie forme di precariato o attività parasubordinata, oltre che ovviamente il lavoro nero. Come notato dal gruppo Tortuga della Bocconi e da Andrea Garnero, economista dell'Ocse autore di vari studi sull'argomento, vi sono interi settori come agricoltura, edilizia e turismo dove il salario mediano è più basso di quello minimo e ciò indica che più della metà dei lavoratori guadagna al di sotto del minimo stabilito dal contratto nazionale. Secondo dati Eurostat sulla povertà si nota che nel 2013 il 10,6 per cento dei lavoratori era a rischio povertà, ossia percepiva un reddito inferiore del 60 per cento al valore mediano nazionale.

Il problema più complesso è trovare il livello equilibrato. «Se il salario minimo è troppo alto – sottolinea Cappellari – può diventare una spinta a non rispettarlo e spiazzare l'occupazione poco qualificata e giovani. In più incide maggiormente laddove la produttività del lavoro è più bassa». Vari studi hanno collocato il livello ideale tra sei e sette euro all'ora, una cifra inferiore ai minimi contrattuali oggi vigenti da noi dove si oscilla dagli 8,4 euro dell'agricoltura e pesca ai 14,7 del settore istruzione.
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In Germania è stato fissato a 8,5 euro e, come accennato, un recentissimo rapporto della Fondazione Hans-Boeckler (vicina al sindacato) firmato da Claudia Weinkopf e Thorsten Schulten, rivela i benefici sull'occupazione nei suoi primi sei mesi, in particolare tra i cosiddetti minijobs e gli altri contratti storicamente sottopagati e al centro di numerose critiche negli ultimi anni. Tra dicembre 2014 e giugno 2015 si registrano 55 mila disoccupati in meno e il fenomeno è ancor più evidente nelle regioni dell'est, dove i contratti precari sono più diffusi.

Dunque non è vero che il salario minimo può minacciare l'occupazione. Germania a parte, anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti ha sempre avuto effetti positivi. In Italia – fa notare Cappellari - si potrebbe porre una questione territoriale e geografica, visto che nelle regioni del Mezzogiorno il costo della vita è notoriamente più basso rispetto a quelle del Nord. E quindi definire un salario minimo diverso tra le due aree, senza voler richiamare le “gabbie salariali” contestate negli anni Settanta. Per esempio, vicino ai sette euro al Nord, ai sei al Sud.

C'è poi il tema dei controlli, che addirittura un paese rigoroso come la Germania mette in discussione. Nel loro rapporto Weinkopf e Schulten invitano infatti a vigilare di più nelle aziende, a scovare i furbi, e questo per un motivo molto semplice: l'imprenditore è più disposto al salario minimo, peraltro ormai obbligatorio, se sa che anche i suoi concorrenti sono leali e l'attuano fino in fondo. Se i tedeschi mettono in guardia su questo, chissà cosa potrebbe succedere in Italia. La soluzione, utilizzata in tutti i paesi, è quella di un'Autorità indipendente che propone al governo il livello e gli adeguamenti del salario minimo e della quale potrebbero far parte Confindustria, sindacati ed esperti del settore. Prevedendo sanzioni in caso di mancata applicazione.