Ogni giorno e ogni notte centinaia di persone vengono strappate 
al mare e alla morte da una nave di soccorso. “L’Espresso” è salito a bordo. 
Per vedere, sentire e capire la più mostruosa e contemporanea delle tragedie umane (Foto di Mathieu Willcocks e Jason Florio)

Mancano solo 300 persone : «Altri 300, e da luglio a oggi avrò visto passare sul ponte di questa nave 10 mila naufraghi. Uomini e donne che senza di noi avrebbero rischiato di morire in mare. Migliaia di vite che abbiamo salvato». Scandisce bene parole e numeri Joey, uno dei marinai della Topaz Responder, la nave di salvataggio della Croce rossa italiana e della fondazione Moas che da mesi pattuglia lo stretto di Sicilia per soccorrere le imbarcazioni dei migranti che dalle coste dell’Africa, soprattutto della Libia, cercano di raggiungere l’Italia.

Il momento migliore per avvicinare l’equipaggio di questa nave e ascoltarne le storie è a fine giornata, quando finalmente possono prendersi il tempo per una sigaretta, per chiamare a casa le famiglie e scherzare tra di loro. «Per fare questo lavoro devi essere un po’ pazzo», racconta uno di loro. «Vivi per settimane lontano da casa, in mezzo al Mediterraneo, e il tuo mestiere è salvare gente». «Io salvo gente», ripete orgoglioso, con quello strano accento italiano dei maltesi che hanno imparato la nostra lingua dalla televisione.
[[ge:rep-locali:espresso:285244522]]
La Responder è un gioiello ad altissima tecnologia: lunga 52 metri, con una stazza lorda di 1.198 tonnellate e motori da 3.820 cavalli. Concepita inizialmente come nave di supporto per le piattaforme petrolifere in alto mare, può contare anche su due imbarcazioni per le emergenze: i Frdc (Fast Support Daughter Craft), motoscafi in grado di solcare le acque anche nelle peggiori condizioni del mare. I nomi dei due “vascelli di salvataggio” non lasciano spazio all’immaginazione: Alan e Ghalib, in onore dei due fratellini curdi la cui morte, trovata cercando di attraversare il Mediterraneo, ha commosso il mondo nel settembre dello scorso anno.

Messa in mare nel 2015, la Topaz Responder è stata presa in affitto pochi mesi dopo dalla fondazione Moas (Migrant offshore aid station) per aggiungersi alla Phoenix, l’altra nave che l’associazione maltese ha acquistato per salvare le vite in mare grazie all’impegno dei suoi fondatori, Christopher e Regina Catrambone.

Da luglio 2016 la fondazione, che è in cerca di fondi per continuare il suo lavoro, ha stretto una collaborazione con la Croce rossa italiana e con la Federazione internazionale della Croce rossa. Così l’equipaggio che in questi mesi ha portato la nave è diviso in tre gruppi: quello che fa riferimento all’armatore; quello di Moas, che organizza le missioni; e quello della Croce rossa, che provvede al supporto medico sanitario.

Il “gruppo Moas” è composto da professionisti con alle spalle decine di anni di esperienza nel campo dei salvataggi. Il loro riferimento è John Hamilton, un cinquantenne che dopo aver servito per 26 anni nelle forze armate di Malta ha deciso di dedicare la sua pensione alla ricerca e al salvataggio delle persone in mare. Ai suoi ordini, un vero e proprio gruppo di élite: da Pedro Silva, sommozzatore della Protezione civile portoghese abituato a lanciarsi in mare dagli elicotteri, a Paul Chamberlain, 45enne inglese che prima di salire a bordo addestrava alle emergenze i vigili del fuoco in Gran Bretagna. Poi ci sono anche i maltesi, Joe e Antoine, marinaio-sommozzatore il primo, pilota il secondo: è lui uno di quelli che guidano il motoscafo ad emergenza rapida quando viene avvistato un barcone.

Poi c’è lo staff di Croce rossa, guidato da Abdel, giovane eritreo arrivato in Italia con uno di quei barconi che ora va a soccorrere: dopo aver ottenuto la protezione sussidiaria, è stato arruolato nell’esercito di Dunant secondo quell’idea di integrazione e professionalità con cui da anni Francesco Rocca, il presidente della Croce rossa italiana, cerca di plasmare la sua associazione. È Abdel che gestisce lo staff internazionale che a rotazione sale sulla nave. Attualmente questo è composto da un’infermiera svedese e da due delegati della Croce rossa islandese che coordinano il supporto sanitario assieme a Michael Kuehnel, grande e grosso medico di Vienna.

Topaz, la compagnia armatrice, fornisce il personale di bordo per la guida e la manutenzione. E a capo di tutti ci sono il capitano, il filippino Edward Abad Caballero, con il primo ufficiale maltese, Pierre Mangion, un ragazzo di 29 anni, un po’ scontroso, come tanti uomini di mare, ma che dietro la timidezza nasconde tutto il pragmatismo e l’efficienza che ci vogliono per ricoprire un ruolo di responsabilità su una nave di questo genere.

La vita a bordo della Responder inizia prima dell’alba. John, forte della sua precedente esperienza nelle forze armate, ha “militarizzato” l’equipaggio con l’accordo degli stessi membri che definiscono questo «il miglior modo per garantire efficienza e professionalità».

La sveglia quindi è alle 5 di mattina. Tranne in caso di soccorsi d’emergenza, com’è successo la scorsa settimana quando Pierre ha avvistato in mare aperto , e in piena notte, un’imbarcazione di legno con a bordo 28 bengalesi che stavano cercando di raggiungere l’Italia dalle coste della Libia.

Di solito la nave inizia la missione raggiungendo le acque internazionali di fronte alla Libia e lì si ferma fino all’avvistamento di un’imbarcazione in difficoltà o fino a quando non riceve una chiamata dal centro nazionale di coordinamento dei soccorsi nel Mediterraneo di Roma.

A spiegare come funziona il tutto è lo stesso Hamilton: «Il più delle volte quello che succede è che il nostro radar avvista il segnale di una piccola imbarcazione diretta a nord. A quel punto la raggiungiamo, verifichiamo di che imbarcazione si tratta e se ha bisogno di aiuto, poi chiediamo a Roma il permesso di intervenire. In altri casi, invece, sono gli stessi trafficanti di uomini che lasciano a bordo dei gommoni un telefono satellitare con cui i migranti possono chiamare direttamente durante situazioni di emergenza. Altre volte ancora c’è bisogno di un intervento nelle acque territoriali libiche: ma questo avviene rarissimamente e sempre solo dopo aver ricevuto l’okay dalla guardia costiera libica».

Ricevuto il via libera di Roma le operazioni di salvataggio hanno inizio.

Quello che colpisce, nella nave, è il silenzio all’avvio delle operazioni: l’unica voce che si sente è quella di Pierre Mangion che dà ordine a tutto l’equipaggio di prepararsi. Un secco e chiaro “stations, stations: stand by”. A tutte le postazioni, a tutte le postazioni: state pronti.

È a quel punto che nel silenzio più totale lo staff Moas e quello Croce rossa corrono a prepararsi: tute bianche di protezione chimica e biologica per chi rimane a bordo del Responder, mute ed equipaggiamento da mare per i sommozzatori, tecnicamente “rescue swimmer”. Dopo pochi minuti i motoscafi di salvataggio vengono messi in acqua e raggiungono l’imbarcazione in difficoltà. I sommozzatori tirano al barcone i giubbotti di salvataggio e poi, uno alla volta, trasferiscono i migranti sull’Frdc. Questo, una volta raggiunto il numero di 15 persone, porta tutti a bordo della “nave madre”.

Viaggi su viaggi, da un’imbarcazione a un’altra. Così semplici da descrivere, ma così complicati da fare. Ogni volta vengono trasportate vite umane, in condizioni difficilissime. Ogni barcone rischia di perdere stabilità, ribaltarsi e portare alla morte decine di persone. Su ogni gommone quello che si trova è indescrivibile: quando va bene sono centinaia di uomini, donne e bambini ammassati. Quando va male ci sono feriti persone ammalate. Ma anche cadaveri.

I “salvati” che raggiungono il Responder sono accolti sulla nave dallo staff Moas (che controlla cos’hanno addosso, dai vestiti agli oggetti) e da quello della Croce rossa che in un primo momento verifica solo rapidamente lo stato di salute e le eventuali emergenze, dividendo uomini e donne. Poi, quando le operazioni di salvataggio saranno finite, di loro si occuperà un “triage” più approfondito, dopo aver distribuito a tutti acqua e coperte termiche.

L’arrivo a bordo di queste persone è impressionante: si percepisce la paura di chi non ha capito cosa sta succedendo, si vedono gli occhi sbarrati di chi teme di esser stato preso da una forza di polizia e teme di essere riportato in Libia, si sente il battere dei denti di chi sta quasi morendo di freddo, tra le urla dei bambini spaventati o quelle delle donne che, sempre, sono quelle che nei gommoni vengono trattate peggio, soprattutto se sole. E poi l’odore, l’odore della benzina del barcone, la puzza di vestiti sporchi e di urina, l’odore della peggiore miseria.

La cosa più bella, il gesto più emozionante, è il grazie di chi è stato salvato, che arriva alla fine delle operazioni. Le gru riportano sulla nave i motoscafi a risposta rapida e il loro equipaggio, il pilota e i “nuotatori di salvataggio”, scendono da una scaletta sulla nave madre. Un enorme, liberatorio ed emozionante applauso gratifica tutti questi uomini che passano le loro giornate in mare, lontano da casa per “salvare gente”. È da quel momento che la Responder, in accordo con Roma, può decidere se rimanere in mare per l’operazione successiva o dirigersi verso il primo porto italiano per lo sbarco dei “salvati”.

Cosa rimane, a monte di tutto questo? Solo un dato, agghiacciante: 4.420. È il numero dei morti nel Mediterraneo a partire dall’inizio dell’anno, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. In crescita perfino rispetto ai 3.770 del 2015 Sono i sommersi, di cui nessuno saprà più niente. Ed è a loro che pensano, impotenti, le donne e gli uomini della nave Responder, appena finisce il lungo applauso dei salvati.