Il rimpatrio di Almasri, figlio degli accordi libici del 2017 e frutto di scelte politiche indifferenti ai destini degli uomini, dice il cappellano dell’ong Mediterranea Saving Humans

Il mare è salvezza. Il mare è morte. La differenza la fa un equipaggio, a bordo di una nave, che strappa dalle onde centinaia, migliaia di sconosciuti. Don Mattia Ferrari è il cappellano dell’ong Mediterranea Saving Humans. Ha 31 anni e una preparazione fisica che gli consente di passare lunghi periodi nel Mediterraneo, a salvare persone. «Noi li soccorriamo, loro ci salvano», ribatte. A causa delle minacce ricevute dalla mafia libica impegnata nel traffico di migranti, vive sotto vigilanza radiosorvegliata.

 

Don Mattia, lei parte per lunghe missioni nel Mediterraneo. Ha salvato tante persone da una morte certa. Perché dice che sono i migranti a salvare lei e non il contrario?

 

«Noi soccorriamo i migranti, ma sono loro a salvarci. Abbiamo bisogno di essere salvati sotto il profilo psicologico e spirituale. L’incontro con i poveri è salvifico perché ci restituisce alla dimensione più autentica della vita, a ciò che veramente conta».

 

Perché ha fatto questa scelta di vita?

 

«O si sta dalla parte di chi commette violenza, o si sta dalla parte di chi la subisce. La chiesa non ha alternative rispetto allo stare radicalmente accanto agli ultimi. È Gesù che detta la linea alla chiesa».

 

Chi ha alternative è la politica.

 

«Sì, ma in generale ogni persona ha sempre tre scelte. Uno, stare attivamente dalla parte dell’ingiustizia. Due, essere indifferente, che significa stare indirettamente dalla parte dell’ingiustizia. Tre, stare dalla parte di chi subisce l’ingiustizia. Le scelte di giustizia sono sempre scelte di amore. La visione della politica dovrebbe essere mossa prima di tutto dall’amore».

 

Seguiamo il suo ragionamento: quando si decide di rimpatriare Almasri, che è accusato dei peggiori crimini, il governo Meloni fa una scelta mossa dall’odio?

 

«Magari non c’è odio, ma c’è perlomeno indifferenza, che è sempre la più grande complice delle ingiustizie. Che ci sia o no odio, che ci sia o no razzismo, di sicuro c’è indifferenza, che è una scelta politica: l’indifferenza non è non scegliere, l’indifferenza è una scelta».

 

Ci sono state delle omissioni di verità sull’operazione di rimpatrio, avvenuta peraltro con un volo di Stato. Più che indifferenza, pare che il governo sia intervenuto per fare la differenza su una vicenda che avrebbe potuto seguire solo il percorso giudiziario.

 

«La vicenda di Almasri ha acuito una ferita già esistente, che si è aperta con gli accordi tra Italia e Libia nel 2017. Da allora, i migranti vengono respinti e consegnati nelle grinfie di Almasri. Sottraendolo alla giustizia, la ferita è diventata una frattura enorme. C’è bisogno di riconciliazione per sanarla ed è il motivo per cui chiediamo alle istituzioni di incontrare le vittime di Almasri. A noi interessa salvare i migranti che sono tuttora in pericolo a causa del suo ritorno in Libia».

 

Sul caso politico di Almasri si è innestata anche la questione dello spionaggio che avrebbe colpito l’ong per cui opera, Mediterranea Saving Humans. Vede una correlazione tra le due vicende?

 

«Non lo so, ma il quadro è inquietante».

 

Si sente al sicuro?

 

«Direi di sì. Sono stato oggetto di campagne diffamatorie anche violente e ho querelato. So benissimo che quando si fa il bene si possono ricevere attacchi, tanto più in una società come la nostra, in cui l’ideologia dominante è quella dell’individualismo neoliberista. La solidarietà è diventata sovversiva, chi predica e costruisce fraternità oramai diventa eretico. Si attacca chi pratica la solidarietà perché è scomodo. È scomodo perché ti ricorda che l’individualismo ti dà l’illusione della felicità, del benessere. Invece, questo modello individualista ha fatto esplodere i disturbi di salute mentale. Ci ammaliamo per inseguire il principio della prestazione». 

 

Come si fa la lotta ai trafficanti?

 

«Almasri è stato catturato perché le sue vittime, negli anni, hanno denunciato e gli investigatori hanno raccolto le prove. Il lavoro dalla Corte penale internazionale è un esempio di lotta ai trafficanti. Parallelamente, occorre aprire canali di accesso legali verso l’Europa. Come sempre le mafie si inseriscono nei vuoti di legalità. Le persone sono abbandonate in Libia e in Tunisia e non hanno possibilità legali di esercitare i propri diritti». 

 

Almasri è un esponente della criminalità organizzata libica o un interlocutore a cui rivolgersi per questioni che interessano il nostro Paese? 

 

«Almasri è uno dei capi della mafia libica, questo deve essere chiaro. Lui è uno dei capi del sistema criminale che si è consolidato anche grazie agli accordi con la Libia. È un circolo collaudato, per cui i migranti finiscono nelle mani dei trafficanti, vengono messi in mare, poi sono catturati dalla cosiddetta guardia costiera libica che li riporta nei lager. Lì vengono torturati per estorcere altri soldi alle famiglie. E il circolo ricomincia».

 

A chi attribuisce la responsabilità politica per la tragedia che descrive?

 

«I decisori politici hanno maggiori responsabilità del singolo cittadino, ma siamo tutti responsabili se gli accordi con la Libia vanno avanti dal 2017. Voglio dire, i nostri politici non sono dittatori: prendono certe decisioni perché percepiscono nella società un consenso nel perseguimento di tali scelte. Noi cittadini dobbiamo sentirci responsabili per la nostra indifferenza, per il nostro “me ne frego”. Se prevale la cultura del “me ne frego”, la società si sgretola o, peggio, viene affascinata da risposte autoritarie. Il “me ne frego” è una cultura che si è diffusa sempre di più nella nostra società. Fino a diventare maggioranza».