
Per accedere oggi a quella soffitta devi farti strada fra la polvere, i pali di sostegno e i piccioni morti del palazzo deserto, sbarrato, senza più ballatoi, in vendita da anni. Cinque persone salgono gli ultimi scalini di legno. La più emozionata, anche se quassù c’è stata altre tre volte, è lei, Chiara Pradella, 27 anni, una laurea in filosofia e una fascinazione per Carlo Michelstaedter, tragica e polimorfa figura di pensatore, poeta e pittore, morto suicida a 23 anni nel 1910, il giorno del compleanno della madre e dopo un diverbio con lei.
Per le vicende e le coincidenze che diremo (giacché questa è una storia nella storia che in un gioco di specchi e rimandi si dipana nell’arco di 110 anni e non è finita affatto) Chiara s’è messa in testa di salvare la soffitta numerata 17 dove entriamo, e ha mosso mari e monti, organizzato convegni, scritto un libro, contattato registi, lanciato una campagna. «In questa cinquantina di metri quadri», racconta, «dal liceo ai due colpi di pistola che chiusero la sua esistenza, Carlo scrisse, disegnò, tenne cenacolo e da ultimo si ritrovò solo, quando Enrico s’imbarcò per la Patagonia in cerca di una vita non corrotta da obblighi e convenzioni (sì che “da te soltanto dipendi”, gli scriverà Carlo), e Nino se ne andò a Vienna a studiare all’Università».
Qui, si legge in una lettera di Michelstaedter a un amico fiorentino sotto il disegno della soffitta com’era, «io vivo una vita che non si può vivere, ma nasce una grande opera»: intende “La persuasione e la rettorica”, la sua anomala e provocatoria tesi di laurea, che sarà pubblicata tre anni dopo la sua morte dall’editore Formiggini, altra egregia e tragica figura di un’epoca, anche lui ebreo, anche lui suicida. E in un’altra lettera: «Quanta pace c’è lì su, che non c’è altrove, che non c’è nel mio animo che va colla testa bassa».
[[ge:rep-locali:espresso:285240951]]
Saliamo. Insieme a Chiara ci sono l’attuale proprietario dell’immobile, un fotografo, il cronista e con lui una scrittrice che si è occupata di suicidi letterari. La porta è deposta a terra al centro della stanza, il pavimento di assi approssimativo e qua e là cedevole, il soffitto lacerato, grandi squarci mostrano l’intelaiatura a canne e sottili legni appesi alle travi annerite che declinano verso l’esterno, e le tavelle su cui poggiano le tegole. A mezza stanza tre abbaini e un quarto in basso, con il ferro di supporto per l’asta di una bandiera.
Il proprietario, Eugenio Perissutti, comincia a raccontare come la sua società quel disastrato palazzo con due secoli e mezzo di storia se lo sia ritrovato sul groppone sette anni fa, disabitato già da altri quindici, quando l’Ater case popolari glielo impose a saldo della ristrutturazione di case in periferia: per lui è un costo, 30 mila euro in un anno solo per minimi lavori di consolidamento, lo venderebbe al volo ma il mercato è fermo, a Gorizia peggio che altrove... «Venite a vedere, c’è un graffito sul muro», lo interrompe la scrittrice, Patrizia Finucci Gallo, e in successione indica, incisi ben netti, il naso, l’occhio, l’orecchio, la chierica di un frate, il cappuccio, il saio. «Ma è il frate inginocchiato!», esclama Chiara, «Carlo l’ha disegnato in due dei suoi quaderni, era un suo professore di liceo...».
Non sarà la soffitta parigina di Emil Cioran, che al 21 di rue de l’Odéon aveva vissuto con la moglie fino all’ultimo e dove alla sua morte nel ’95 si scoprirono 34 strepitosi quaderni di note e aforismi; ma questo spazio svuotato, con quel graffito unico segno rimasto indelebile come un tatuaggio, si addice in fondo a un’esistenza intensa bruciata in cinque o sei anni. «Ansia di perfezione che conduce al nulla», quella di Carlo e dei suoi sodali, ha scritto Claudio Magris in “Un altro mare”, romanzo sulla vita di Mreule: Nino morirà nel ’23 per la caduta in un burrone, e quanto a Rico, «al di qua e al di là dell’oceano la sua vita sarà tutta una trigonometria di quella soffitta dove s’incontravano ogni giorno Carlo, lui e Nino».
Time-lapse, a ritroso nel tempo. Sette anni fa: seggiola, tavolo, scaffali e scala a pioli sono ancora lì, ma «infraciditi e ricoperti da uno spesso strato di guano, così li abbiamo buttati, ora mi mangio le dita», confessa il proprietario. Nel secondo dopoguerra il palazzo è vivo e abitato, a pianterreno sta la più fornita ferramenta della città, sopra c’è l’animata sezione del Partito Comunista, la soffitta di Carlo è abbandonata ma chiusa. Nel ’21 ristrutturano in facciata lo squarcio lasciato nel ’15 da una granata austriaca. A rebours, arriviamo infine al 1909. Nella Gorizia absburgica, Görz in tedesco, circondata da monti e laghi, per le guide la Nizza d’Austria, villeggiatura prediletta dalla bella società viennese: città luccicante di caffè, alberghi, ristoranti, persino il cinema e il primo tram elettrico, nei giardini la banda, per strada le eleganti signore con l’ombrellino e i baffuti funzionari dell’Impero in pensione che Michelstaedter disegna spesso in caricatura nei suoi quaderni.

Al centro sta il tavolo-scrivania dalle gambe ben sagomate, una sedia dallo schienale alto, una lampada fiorentina a olio istoriata con citazioni in greco, una scala a pioli per accedere all’abbaino. Sulla parete di destra, la stessa del graffito del frate appena scoperto, scaffali pieni di libri, due sciabole giacché Carlo si diletta di scherma e, in alto, il ritratto di Schopenhauer: è stato Mreule, di un anno più vecchio, a fargli leggere “Il mondo come volontà e rappresentazione” e si capisce come il geniale, misogino, pessimista e tignoso filosofo tedesco affascinasse quel trio appena uscito dall’adolescenza anche più delle altre loro passioni, Ibsen, Leopardi, Tolstoj, Omero e i tragici, Platone, Gesù Cristo, Buddha, le Upanishad. Loro tre, misogini non sono. Carlo ha una fidanzata come lui pazza per Beethoven, a Firenze dov’è stato mesi a più riprese a studiare Lettere s’è innamorato di un’ebrea russa che si è suicidata nel 1907, frequenta i bordelli, nel 1908 s’è preso la gonorrea, la penicillina ancora non c’è e la malattia lo devasta, forse è anche questo che lo porta alla morte. Ne parliamo in queste pagine con Sergio Campailla, massimo esperto di Michelstaedter e curatore di tutte le sue opere.

Marcello Crea è già stato Michelstaedter. A 25 anni (ora ne ha 60) sul palcoscenico dello Stabile Friuli-Venezia Giulia, a 50 in un recital per RaiTre e, soprattutto, in “Come fosse l’ultimo” (sottinteso: vivere ogni istante), testo suo e di Paolo Magris: «È incredibile», attaccano i due autori, «che ancora non sia stato girato un solo film né su quel periodo della nostra storia fra esaltazione vitalistica e montante irredentismo, né sul “male di vivere” della modernità, la continua proiezione in avanti, la fuga dal presente sempre sentito come insufficiente, e all’opposto sulla sete di esistere nell’autenticità dell’attimo, pilastro della riflessione e del sentire di Michelstaedter». Crea e Magris la sceneggiatura ce l’hanno pronta da tempo, ma una produzione in costume costa, non ci sperano più. Hanno allora immaginato un film low cost, su una ragazza di oggi che scopre Michelstaedter attraverso un maturo professore. Sì, il doppio, appena un po’ sfalsato nei caratteri, della storia di Chiara. Carlo vi compare in alcune scene come ombra e voce fuori campo. Nella soffitta di Palazzo Paternolli.
Niente indagini, nell’abbozzo di sceneggiatura, sulla sua fine: «Suicidio metafisico, socratico, stirneriano, nichilista, s’è scritto di tutto, deformando e svilendo la sua opera in ragione della sua morte. Ma appena dieci giorni prima lui condannava il suicidio come fuga dal mondo! E poi, non si ha forse anche il diritto di predicare bene e razzolare male?». Così Paolo Magris. E tuttavia. Dobbiamo dirlo? Michelstaedter è pericoloso. Perché è coinvolgente, diretto, spietato. Per giunta, la sua è una scrittura ben comprensibile, nonostante il forbito linguaggio per noi arcaico. Da qui l’ultima battuta che, a mezzo tra disagio e liberazione, esce di fiato a Marcello Crea: «Ogni volta che rileggo una pagina di Michelstaedter, quel giorno non mi sento più lo stesso. Mette il dito nella piaga. Sarà ingiusto e forse impossibile, ma comincio a credere sarebbe meglio lasciarlo lì dov’è, chiuso, sullo scaffale in mezzo agli altri libri...».