Danimarca, Cina e Polonia si contendono il primato mondiale nella produzione di queste pellicce. Sempre più richieste dai nuovi ricchi di tutto il mondo. Tra polemiche, divieti, boicottaggi, ma soprattutto business (Foto di Paolo Marchetti per l’Espresso)
Le signore delle nuove borghesie nei paesi emergenti probabilmente non lo sanno, ma uno degli status symbol a cui tengono di più nasce in posti del nord Europa come Grodzisk Wielkopolski, vicino Poznan, nella campagna della Polonia centro-occidentale. Qui ha sede la Nutrex, una delle aziende che, per qualità e metodologia di lavoro, è più all’avanguardia nell’industria polacca della pelle. Nata subito dopo la caduta del comunismo, inizialmente si occupava di nutrie e volpi, ma da un po’ di anni il core business è cambiato. In questi hangar oggi vengono allevate decine di migliaia di visoni. Nutriti in gabbia, uccisi per legge con il gas, le loro pelli vengono trasformate in pellicce ed esportate.
La Polonia è uno dei Paesi europei che hanno fatto registrare una maggiore crescita in questo mercato. Secondo i dati dell’organizzazione Fur Europe, che da Bruxelles coordina gli allevatori del continente, in Polonia esistono oggi 1.144 fattorie specializzate, che producono 7,8 milioni di pelli di visone (solo 75 mila quelle di volpe e 60 mila di cincillà). Il tasso di crescita è significativo, visto che nel 2012 le fattorie erano 750 e le pelli prodotte 5,4 milioni, cioè, allora, il 15 per cento di tutta Europa.
[[ge:rep-locali:espresso:285181250]]Numeri che fanno ormai della Polonia la seconda produttrice continentale e la terza nel mondo. Tiene infatti a grande distanza non solo i Paesi che solo da poco sono entrati nel mercato, come la Grecia (1,8 milioni di pelli di visone), la Lituania (1,5) e la Lettonia (770 mila), ma anche diversi Stati del Nord, di quella Scandinavia in cui si trova la regina mondiale dei visoni, la Danimarca, dove in 1.533 fattorie si producono 17.880.000 pelli, mentre al terzo posto si trova l’Olanda con 5,5 milioni di pelli e solo 185 aziende.
È un mercato complesso, quello delle pellicce di visone, perché in alcuni Paesi questo tipo di allevamento è stato proibito: come nel Regno Unito, in Austria e Croazia. Nella stessa Olanda la decisione è proprio in queste settimane al vaglio della Corte Suprema. Ma oggi a determinare le fortune di questo settore non sono solo le leggi dei singoli Stati europei, ma soprattutto quelle di Pechino. La campagna contro i lussi degli alti funzionari è una seria minaccia al business, così come lo sono la minore crescita del Pil e i crolli della Borsa di Shanghai.
Per capire quanto gli allevatori europei dipendano dal Regno di Mezzo basta farsi un giro al quartier generale della Kopenhagen Fur, sede della Danish Fur Breeders’ Association, la più grande casa d’aste al mondo per le pellicce. È il cuore di quella Danimarca che produce un quinto delle pelli di visone del mondo e che si è inventata anche il più famoso alimento per questi animali. Ogni anno la Kopenhagen Fur mette all’asta oltre 20 milioni di pellicce, registrando fatturati da quasi 3 miliardi di euro. Agli eventi partecipano circa 600 persone, la metà delle quali sono appunto cinesi.
La svolta di questa industria si è avuta a metà anni Novanta. In Europa le pellicce non andavano più tanto di moda, e i danesi volarono a Pechino e convinsero i cinesi che il visone era il top tra i simboli di successo. Organizzarono sfilate di moda e commissionarono pubblicità in cui uomini potenti si accompagnavano a ragazze impellicciate. Negli ultimi anni la Kopenhagen Fur ha avviato partnership con prestigiose università come la Tsinghua di Pechino, e ospita nella capitale danese designer cinesi. Un suo laboratorio è incaricato inoltre di «spingere la pelle fino al limite», cioè di pensare a come mettere il visone sui caschi dei motociclisti, sulle cover degli iPad, persino sui portachiave e sui lampadari.
Oggi il mercato mondiale risente di molte variabili, dall’inverno caldo alle sanzioni che colpiscono i ricchi russi fino alla moda: Ralph Lauren e Tommy Hilfiger non usano ad esempio le pellicce, e ci sono riviste e grandi catene di negozi che le boicottano. Un’altra insidia arriva dal mercato di quelle finte, ecologiche. «Hanno superato quelle vere?», si è chiesta poche settimane fa in un’inchiesta France 2, segnalando come, anche in questo caso, uno dei principali protagonisti sia (di nuovo) la Cina. I modelli ecologici sono d’altronde entrati nelle collezioni di Stella McCartney o del marchio londinese Shrimps, la cui fondatrice Hannah Weiland ha raccontato a “Le Monde” come, in seguito alla crescita della domanda dei consumatori, sia migliorata anche la qualità, e la reputazione, delle sintetiche.
In generale comunque la pelliccia vera non è in crisi. Anzi. Un rapporto del 2014 dell’Iftf, la federazione internazionale del commercio della pelliccia, sostiene che le vendite sono raddoppiate tra il 2011 e il 2013, che questa industria vale più di 35 miliardi di dollari e impiega un milione di persone nel mondo. Nel 2015, secondo la casa d’aste finlandese Saga Furs, è stata utilizzata nel 73 per cento delle sfilate di New York, Milano, Parigi e Londra, mentre un’associazione americana stima che quella della moda maschile, in netta crescita, rappresenterebbe ormai il 5 per cento del totale. E nel 2016? «I problemi economici di Russia e Cina faranno leggermente diminuire la produzione europea ma soprattutto quella cinese, che nel 2014 è stata di 35-40 milioni», rispondono da Bruxelles.
Cosa succede invece in Italia? Ci sono 30 aziende. E quante pelli di visone si producono? 180 mila, ci dicono sempre da Fur Europe, dunque più o meno quanto in Paesi molto più piccoli come Romania, Belgio o Irlanda, che si fermano a 200 mila.
E gli animalisti, cosa ne dicono? «Le normative fissano alcuni principi volti a garantire il “benessere” degli animali negli allevamenti, ma molti fatti di cronaca testimoniano che vengono spesso disattesi. Ma il cuore del problema è un altro: è che nessun animale deve essere ucciso per soddisfare un malinteso senso di vanità, Crudelia De Mon va messa al bando», ci spiega Carla Rocchi, presidente dell’Enpa, l’Ente per la protezione degli animali, che aggiunge: «Secondo l’Eurispes, nel 2015 la quasi totalità degli italiani, il 90,7 per cento, si diceva contrario all’uso di pellicce, bordature, colli e accessori vari. La cosa non è sfuggita alle case di moda, e gli stilisti “cruelty free” sono sempre più numerosi».
Contro il mercato dei visoni continuano intanto le campagne di vari gruppi animalisti. Blitz si registrano in tutto l’Occidente. Ce ne è stato uno di “Essere animali” a Carpi a fine novembre, mentre a luglio in Ontario, in Canada, sono stati fatti fuggire da una fattoria quasi 8 mila visoni.
La vera battaglia va combattuta però con la Cina. Perché le poche immagini che sono trapelate dai loro allevamenti sono davvero scioccanti. Perché sono i secondi produttori mondiali di pelli di visone dopo la Danimarca e, se guardiamo alle esportazioni delle pellicce di ogni tipo, il rapporto dell’Iftf sostiene che nel 2014 tra il 70 e l’80 per cento sono state realizzate da Hong Kong. E infine perché sono grandi compratori. La Venere in pelliccia, oggi, parla mandarino.