L’emirato più ricco del mondo vuole emanciparsi dall’oro nero. Quindi punta su tecnologia, finanza e (soprattutto) turismo. Con l’obiettivo di trasformare i mondiali di calcio del 2022 in un gigantesco spot (Foto di Ziyah Gafic)
Il prezzo del petrolio continua a scendere e il Qatar non gradisce: primo Paese al mondo per Pil pro capite davanti a Lussemburgo e Singapore, nel 2016 registrerà un deficit di bilancio per la prima volta negli ultimi 15 anni. Così l’emirato dei milionari è costretto a rivedere le sue priorità: qualche settimana fa è arrivato per esempio l’annuncio della chiusura di Al Jazeera America.
La potente emittente satellitare non è riuscita a sfondare negli Stati Uniti, dove nel 2013 aveva lanciato un canale a stelle e strisce dopo aver acquistato Current Tv da Al Gore. Aveva assunto oltre 700 giornalisti, ma riusciva ad attirare solo 30mila spettatori nel prime time. Uno smacco per Al Jazeera, il simbolo più potente dello smart power internazionale del Qatar.
Gli altri due grandi simboli dell’espansione, tuttavia, non sembrano subire al momento ridimensionamenti. Uno è la compagnia di bandiera Qatar Airways, che si sta espandendo nell’Est Europa ed è entrata nell’italiana Meridiana. E poi c’è lo sport. Qui fanno già tappa i circuiti internazionali della moto Gp, del tennis e del ciclismo, e sono stati messi da tempo gli occhi anche sulla Formula Uno (non solo per portarci un Gran Premio, ma proprio per strappare a Bernie Ecclestone tutto il circus insieme a un grande socio americano). Nulla però è paragonabile all’importanza dei Mondiali di calcio del 2022, per la cui assegnazione il Qatar è stato accusato di tangenti e per i quali spenderà qualcosa come 220 miliardi di dollari. Saranno d’altronde la grande vetrina internazionale del Paese, così come nel 2020 lo sarà l’Expo per i “cugini” di Dubai. [[ge:rep-locali:espresso:285186360]] Per lo show del calcio non si bada a spese, come dimostrano gli immutati investimenti nel Paris Saint Germain da parte della Qatar Investment Authority, unica proprietaria della squadra che sta dominando il campionato francese. Anzi. Per la sua stella più splendente Zlatan Ibrahimovic si sta pensando anche a un aumento dell’ingaggio.
Anche in Italia gli affari non si fermano: i grattacieli di Porta Nuova e l’Hotel Gallia a Milano, e poi Meridiana e Valentino, con l’interscambio tra Roma e Doha che è tornato anche a crescere. «A ben vedere, però, non si tratta di investimenti in aziende, ma in marchi consolidati, in brand sicuri, oppure nel real estate, nel mattone, come già a Londra con Harrods, mentre Meridiana è funzionale agli altri affari fatti in Sardegna, dalla Costa Smeralda all’ospedale Mater Olbia», ci spiega Palma Libotte, fondatrice della Camera di commercio italiana in Qatar: «È uno shopping d’occasione all’estero che è sempre più centrale ora che, con il calo del prezzo del petrolio, il mercato interno rende sempre meno: questo è un momento di assestamento».
Le conseguenze si vedono anche nella vita quotidiana. «Poche settimane fa il prezzo della benzina locale è aumentato del 30 per cento», ci dice Jean-Marc Rickli del King’s College di Londra, che attualmente risiede al Qatar’s Defence College di Doha: «Si parla di una riforma fiscale e di una probabile introduzione dell’Iva, tutte cose che per gli stranieri che vivono qui potrebbero cominciare a erodere il vantaggio competitivo dei Paesi del Golfo».
È un assestamento sì, ma tranquillo, senza la paura che sta vivendo invece l’Arabia Saudita. «Più del 50 per cento del Pil del Qatar dipende da petrolio e gas, ma la maggior parte proviene in realtà dal gas naturale liquefatto, di cui ha le terze riserve più grandi del mondo e di cui è il primo esportatore», fa notare Rickli, «e poi già da dieci anni stanno diversificando l’economia puntando su finanza, scienza, tecnologia, istruzione e turismo (nel 2015 quest’ultimo settore ha toccato un numero record di quasi 3 milioni di visitatori, ndr)».
È invece rallentato il flusso delle aziende italiane in Qatar, e la colpa non è solo dei profondi tagli alle Camere di commercio che ad esempio tolgono alle aziende i sussidi per partecipare alle fiere, ma anche del caos del Medio Oriente. «Le aziende italiane hanno più paura, e poi metteteci anche che l’immagine del Qatar è sotto attacco sui media internazionali», osserva Libotte. Il riferimento è soprattutto alle famigerate condizioni dei lavoratori stranieri, perlopiù asiatici, che rappresentano circa il 90 per cento di una popolazione che conta 2 milioni e mezzo di persone.
Come è noto, sono finite nel mirino delle associazioni internazionali per i diritti umani, soprattutto ora che quei lavoratori sono impiegati nella costruzione degli stadi per i Mondiali in forme da molti definite di “moderna schiavitù”. «Sono criticità lecite, ma ricordiamoci che lo sfruttamento, quando c’è, è spesso ad opera delle aziende straniere», avverte Libotte, che da 9 anni vive qui e ricorda che sono state introdotte norme che tutelano i lavoratori soprattutto nei periodi in cui il caldo è torrido. La condizione dei lavoratori stranieri rimane però al centro del dibattito internazionale, con l’annunciata riforma che è stata lodata dall’Alto Commissario Onu per i rifugiati e criticata invece da Human Rights Watch e da Amnesty International.
La politica estera è intanto cambiata. «Quando scoppiarono le primavera arabe, il Qatar sostenne i Fratelli Musulmani alienandosi le simpatie dei vicini, e infatti nel marzo del 2014 l’Arabia Saudita, gli Emirati e il Bahrain ritirarono i loro ambasciatori da Doha», ricorda Rikli: «Oggi il Paese è molto più cauto ma gioca ancora un ruolo di mediatore, ad esempio tra Stati Uniti e talebani». «C’è stato un pragmatico aggiustamento, ma non un’inversione a U», ci spiega Gerd Nonneman, preside della Georgetown University del Qatar: «La Fratellanza ha visto limitata la sua attività pubblica, ma non è stata dichiarata illegale. Con Riyadh e Abu Dhabi si è trovato un compromesso sulla questione siriana, e soprattutto il Qatar ha inviato mille soldati in Yemen per combattere al fianco dei sauditi contro gli Houthi filoiraniani».
Si muove qualcosa anche nel campo della partecipazione democratica e dei diritti dei cittadini, in un Paese che è solo al 115° posto nel World Press Freedom Index? Rickli, che da accademico dice di non essere stato mai censurato in Qatar («Ma non potrebbero permetterselo, visto che attrarre gli universitari stranieri è parte della loro strategia di diversificazione»), ricorda che qui il potere è ancora legittimato dalle tribù. «Prima o poi ci saranno elezioni parlamentari, ma vengono sempre rimandate anche perché, sinceramente, non c’è ancora molta pressione popolare in proposito», ci spiega inoltre Gerd Nonneman: «Le elezioni municipali invece si tengono, e in generale non manca il dibattito pubblico, anche tramite i social media».
La società si sta sempre più islamizzando? Sembrerebbe di sì. Nonneman fa notare che alla Qatar University l’arabo è sempre più importante, e rimane il divieto di bere alcol a The Pearl, l’area più frequentata dagli stranieri. «La società, come l’economia, è molto globalizzata. La popolazione è per l’85 per cento straniera, e i giovani sono degli smanettoni. Però assistiamo a un chiaro processo di glocalizzazione», conferma Rickli: «L’accesso ai costumi globali fa sentire minacciata la propria identità, e si genera un contraccolpo. Ecco allora il governo mettere in atto un programma di qatarizzazione per promuovere i valori locali e per aiutare i qatarioti nel mercato del lavoro. Si cerca un rifugio identitario davanti alla globalizzazione: in fondo non è un fenomeno molto diverso da quello che spiega il successo di Trump in America, di Le Pen in Francia o della Lega nel vostro Paese».