Le modalità di esecuzione degli attentati rimandano a un progetto pianificato con largo anticipo. Che mira a frammentare gli interessi nazionali e dimostrare che le attività d'intelligence sono inutili nei confronti di un nemico che vive nel cuore della democrazia liberale. L'evoluzione stategica dello Stato islamico

Gli attacchi terroristici di Bruxelles sono un durissimo colpo al cuore politico dell'Europa. Mirano alla città-simbolo dell'Europa unita, per dividerla. Le istituzioni di Bruxelles incarnano il faticoso percorso di avvicinamento tra attori nazionali una volta in guerra, oggi in c0mpetizione, finalmente decisi a trovare soluzioni condivise. Gli attentati all'aeroporto di Zaventem e alla stazione metropolitana di Maeelbeek, che hanno provocato almeno 31 morti e decine di feriti, spingono nella direzione opposta: puntano a dividere, a polarizzare, a frammentare un continente lungo le faglie degli interessi nazionali, delle paure e delle risposte emotive di ciascun paese. Oltre che a dimostrare che le attività dell'intelligence sono inutili, nei confronti di un nemico che non viene dall'esterno, ma vive nel cuore stesso dell'Europa dei diritti e della democrazia liberale.

Gli attacchi sono avvenuti pochi giorni dopo l'arresto nel quartiere Malenbeek di Bruxelles di Salah Abdeslam, uno dei principali sospettati per gli attentati di Parigi dello scorso novembre. Subito dopo il suo arresto, Abdeslam avrebbe dichiarato alle autorità belghe che era in procinto di colpire ancora. Già domenica il ministro degli Esteri belga, Didier Reynders, ha dichiarato che Abdeslam «era pronto a rifare qualcosa a Bruxelles». Il primo compito degli investigatori dunque è chiarire se gli attentati di Bruxelles siano il colpo di coda di una cellula sotto crescente pressione, o il primo di un gruppo ancora sconosciuto alle forze di sicurezza. C'è chi ipotizza che siano una vera e propria risposta all'arresto di Abdeslam, un modo per vendicarlo. Difficile che sia così: le modalità dell'esecuzione e gli obiettivi colpiti rimandano a un progetto pianificato con largo anticipo, che forse ha subito un'accelerazione.
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Lo Stato islamico si è affrettato a rivendicare gli attentati. Prima attraverso un comunicato di Amaq, una delle agenzie stampa del gruppo, con cui si celebrano le azioni «dei combattenti dell'Is» contro un «Paese che partecipa alla coalizione internazionale anti-Is». Poi attraverso una dichiarazione ufficiale in cui si elogiano i «soldati del Califfato» per l’uccisione di 40 persone e il ferimento di 210 «cittadini degli Stati crociati» e si minacciano nuovi attacchi contro l’Occidente. Come nel caso di Parigi, la rivendicazione per Bruxelles non fuga la questione principale: se si tratta di attacchi ideati, pianificati e finanziati dalla leadership dello Stato islamico in Siria, o soltanto ispirati. La differenza non è di poco conto. Nel primo caso si tratterebbe di una vera e propria strategia centralizzata, nel secondo caso di un non meno pericoloso processo di “emulazione” e ispirazione da parte di cellule operative autonome, che del Califfo condividono ideologia e obiettivi strategici, non risorse, competenze e consigli.

I dati fin qui disponibili fanno comunque pensare che lo Stato islamico stia attraversando una fase di evoluzione strategica. Fino alla strage di Parigi, la maggior parte degli analisti ha visto nel gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi un movimento che a differenza di al-Qaeda concentra la propria azione in ambito locale, pur non rinunciando a una propaganda dal respiro globale. Secondo quest'interpretazione, gli obiettivi primari rimanevano la conquista e il controllo del territorio che fonda il Califfato, lo State-building in Siria e Iraq. Gli attentati di Parigi e ora quelli di Bruxelles potrebbero segnalare un cambio di passo: dal semplice incitamento retorico ai simpatizzanti e ai militanti che vivono in Europa, si sarebbe passati alla pianificazione centralizzata.

A ben guardare le due strategie – quella contro il nemico lontano, l'Occidente, e quella volta allo State-building territoriale – non si escludono. Anzi, si rafforzano a vicenda. Dimostrarsi all'offensiva, serve a compensare le recenti perdite territoriali in Siria e Iraq. A mobilitare nuove reclute, confermando la forza del gruppo agli occhi dei simpatizzanti. Ma serve anche a provocare divisione all'interno del variegato fronte europeo, tra chi invoca la risposta muscolare e chi teme ritorsioni in casa. Scegliendo la prima opzione, l'Europa finirebbe in un vicolo cieco: colpendo le infrastrutture dell'Is in Siria e Iraq infliggerebbe un danno relativo alla leadership, ma alimenterebbe in modo significativo la retorica della battaglia occidentale contro i musulmani, l'idea che sia in corso una cospirazione degli sciiti, sostenuti dagli Usa e dall'Europa, per limitare il potere sunnita nel Medio Oriente. Un favore al Califfo, che punta a creare divisioni nel fronte nemico ed approfondire la spaccatura tra musulmani e non-musulmani.

Che ci sia o meno il “Califfo” dietro alla strage di Bruxelles, conta relativamente poco. Perché al di là della regia e della matrice ancora incerta, al di là delle responsabilità individuali, rimane un dato centrale. Nel cuore dell'Europa si è assistito a un lento, progressivo smottamento culturale, con l'affermazione silenziosa della cultura jihadista tra giovani nati e cresciuti nel vecchio continente. Lo dimostrano i numeri.

Secondo l'International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence di Londra (Icsr) sarebbero più di 20.000 i combattenti stranieri che militano nelle organizzazioni islamiste armate attive in Siria e Iraq. Quattromila sarebbero residenti o nati in Europa. Il rapporto dell'Icsr risale all'inizio del 2015 e registra un incremento significativo (quasi il doppio) rispetto ai numeri riportati nel dicembre 2013. È una tendenza che preoccupa soprattutto il Belgio, uno dei Paesi europei che “produce” il più alto numero di combattenti: per l'Icsr, ci sarebbero 40 foreign fighters per ogni milione di abitanti, in confronto ai 18 della Francia e ai 9.5 del Regno Unito. Il Belgio dunque è il Paese che registra il più alto numero di foreign fighters (tra i 350 e i 500) in rapporto alla popolazione (11 milioni di abitanti).

Oltre che numerosa, la rete jihadista belga è ben strutturata. Sfrutta la fragilità di uno Stato-nazione tra i più deboli d'Europa, e allo stesso tempo le connessioni di uno dei principali hub dei trasporti e delle comunicazioni del continente. È una rete con radici solide. Non si tratta soltanto del network che ruota intorno ad Abdeslam, ma di un network dal raggio più ampio «di quanto ci aspettassimo», secondo quanto dichiarato dallo stesso ministero degli Esteri belga, Didier Reynders. La sua istituzione precede il conflitto siriano e l'affermazione dello Stato islamico nei territori che sarebbero poi diventati il “Califfato”. Secondo quanto raccontato sul numero del giugno 2015 del New Yorker dal giornalista Ben Taub, i combattenti belgi invocano da anni un risveglio dei mujahedin locali, per colpire al cuore l'Occidente corrotto e mobilitare nuove reclute, nel segno del jihad. L'ascesa di Abu Bakr al-Baghdadi, l'annuncio della nascita del Califfato, non hanno fatto che rinvigorire movimenti già presenti. Dando nuova linfa a tendenze sociali e culturali circoscritte, ma molto diffuse in certi ambienti. Un aspetto troppo spesso trascurato, tra gli analisti di intelligence.

«La verità è che il terrorismo non è qualcosa fai-da-te. Come ogni altra forma di attivismo, è altamente sociale», scrive Jason Burke in The New Threat from the Islamic Militancy. «Negli ultimi tre decenni gli sviluppi più importanti dell'islamismo militante non hanno a che vedere con i successi o i fallimenti di un'organizzazione specifica, con la creazione o la distruzione di una particolare enclave in un Paese lontano, né con la conquista di una città o con la perdita di una battaglia, ma con l'emergere, il consolidamento e l'espansione di ciò che potremmo definire il movimento dell'islamismo militante». È la diffusione di un certo milieu culturale, di una particolare lingua franca internazionale, di una vera e propria «comunità globale» che condivide lingua, stili di vita, piattaforme mediatiche, pensieri, rancori e obiettivi. All'insegna dell'islamismo militante, armato.

La forza principale delle reti europee che rientrano in questo panorama culturale è la frammentazione del continente secondo le linee degli Stati-nazione. La solidarietà è internazionale, ma gli apparati di intelligence continuano a lavorare perlopiù secondo indirizzi nazionali. Una strategia vecchia, ormai fallimentare. Incapace di mantenersi sul piano delle reti jihadiste, sempre più transnazionali. Come quella che ha colpito il cuore dell'Europa politica e istituzionale a Bruxelles.