Negli Usa e nei Paesi scandinavi la legge sull’accesso agli atti dello Stato funziona bene. Perché è stata fatta in modo serio. In Italia invece mancano alcuni elementi che servono a rendere effettivo il principio

L’intervento più paradossale, nel dibattito sulla trasparenza degli atti dello Stato, è arrivato da Renato Brunetta, già ministro della Pubblica Amministrazione. Il quale martedì 5 aprile ha criticato il testo proposto dall’attuale governo chiedendosi se non sia «meglio la normativa vigente»: cioè quella del 1990, che dichiara inammissibili «le istanze di accesso a un controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione», quindi in sostanza vieta l’accesso alle informazioni da parte dei cittadini.

Una legge peraltro ulteriormente peggiorata dal Regolamento emanato dal governo nel giugno 2011 (quando proprio Brunetta era ministro) che elencava un’enorme quantità di «casi di esclusione del diritto d’accesso dei documenti della presidenza del consiglio», mettendo gli atti di Palazzo Chigi al di fuori dell’accessibilità.

Ma qui, appunto, siamo al grottesco: il governo Berlusconi è quello che più ha fatto contro la trasparenza e questo dato storico non può essere ribaltato dai limiti dell’attuale progetto e dalle inesattezze con cui il ministro Marianna Madia lo ha difeso, sia in una lettera a “l’Espresso” sia in un’altra al “Corriere della Sera”, in risposta a Ferruccio de Bortoli.

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I punti critici in discussione, per quanto riguarda il futuro Freedom Information Act italiano, sono in particolare tre.

Il primo riguarda il modo con cui viene regolato il diritto dei cittadini a conoscere gli atti: ed è un bivio dirimente per decidere se questo diritto resta solo teorico e vuoto o è davvero praticabile. Il testo del governo prevede infatti la possibilità del silenzio-diniego: se la pubblica amministrazione non risponde entro 30 giorni dalla richiesta, questa si intende respinta (senza che debba essere addotta alcuna motivazione) e il cittadino può fare solo ricorso al Tar, pagandosi un avvocato.

In Gran Bretagna, negli Stati Uniti e nei Paesi scandinavi - dove i Foia esistono da decenni e sono ben rodati - in caso di rifiuto la Pubblica amministrazione deve invece specificare il perché, entro limiti di tempo precisi; e al cittadino viene comunque garantita la possibilità di un ricorso per via extragiudiziale (quindi senza cause in tribunale) a un’autorità indipendente con poteri di enforcement (ad esempio l’Information Commissioner nel Regno Unito, un Ombudsman in Svezia).
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È quindi improprio, almeno a questo proposito, il riferimento di Madia ad «altri Paesi che hanno norme più restrittive». Anzi, secondo l’avvocato Ernesto Belisario, dell’associazione Foia4Italy, «dei Freedom Information Act stranieri quello proposto dal governo italiano mantiene solo il principio generale, ma mancano gli elementi che servono a rendere effettivo questo principio».

E qui si viene al secondo punto focale: le eccezioni, cioè i campi su cui il cittadino non ha diritto all’accesso. Perché ha ragione Madia quando dice che «in tutte le legislazioni c’è un bilanciamento di interessi che determina alcuni limiti al “diritto di sapere”»: ma la questione è appunto dove si fissa l’asticella di questo bilanciamento. Nel caso del testo proposto da Madia, «il problema è la vaghezza e la genericità delle eccezioni, dei temi su cui lo Stato nega l’accesso», spiega l’avvocato Guido Scorza, docente di Diritto delle nuove tecnologie. E tanto più le eccezioni sono vaghe, quanto più è facile per una Pubblica amministrazione farvi rientrare le richieste dei cittadini, rispondendo quindi “no”.

«Il testo del Foia italiano in realtà non contempera interessi diversi ma si limita a stabilire la prevalenza di un interesse sull’altro», cioè l’autotutela della Pubblica amministrazione rispetto al diritto di sapere. Per un vero bilanciamento, sostiene Scorza, «la legge dovrebbe limitarsi a tre aree di eccezioni - privacy, segreti di Stato e sicurezza interna o internazionale - elencando in modo tassativo quando queste aree prevalgono e dando poi al cittadino la possibilità di ricorrere in modo gratuito a un’autorità indipendente.
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Con il tempo si formerebbe così una giurisprudenza che permetterebbe di definire i confini: il bilanciamento, appunto». Concorda Belisario: «La cosa più importante è che le eccezioni siano circoscritte. Anche l’Ocse ha raccomandato che le limitazioni siano definite “in maniera precisa” e “proporzionale all’obiettivo di protezione di interessi legittimi pubblici e privati”».

Infine, c’è la questione delle modalità pratiche con cui devono essere avanzate le richieste e i relativi costi, terzo punto debole del testo proposto dal governo. Perché il diritto all’accesso sia reale, è una questione fondamentale: «Bisogna prevedere un form online», dice Scorza, «in cui il cittadino non individui necessariamente il singolo documento (che potrebbe non conoscere) ma l’oggetto della sua curiosità».

In questo modo tutto sarebbe gratuito e anche questo è un principio di base: «L’accesso alle informazioni è un diritto, quindi non può essere sottoposto al pagamento di una tassa», dice Belisario. «Negli Usa il costo annuale per l’applicazione della legge è di circa 416 milioni di dollari, meno di 1,4 dollaro per ogni cittadino. Da noi un vero Foia consentirebbe di risparmiare almeno una parte del costo della corruzione, valutato in circa 60 miliardi di euro l’anno: quindi darebbe allo Stato molto più dei suoi costi».

Senza dire che il tutto si risolverebbe se la legge si limitasse a prevedere l’obbligo di mettere semplicemente on line ogni atto della Pubblica amministrazione non coperto da eccezioni chiare, fondate e circoscritte. Così si arriverebbe addirittura all’eliminazione della domanda di accesso: le informazioni sarebbero fruibili da tutti, sul Web. È, da anni, la cosiddetta proposta Acta (Accesso Civico Trasparente agli Atti), avanzata dall’imprenditore e attivista per la trasparenza Giuliano Bastianello. Forse troppo evoluta perché venga presa in considerazione.