Intellettuali e politica, Giuseppe Catozzella: 'L’eco dei media allo scrittore non serve'
La letteratura incide sul reale perché arriva direttamente a ogni singolo lettore. E basta. Un nuovo intervento nella discussione aperta da Paolo Di Paolo
Le parole con cui Paolo Di Paolo ha sollevato alcune sollecitazioni in queste pagine (“l’Espresso” n. 16) sul rapporto tra gli scrittori e la “realtà” sono le parole emotive e iperboliche dell’amante in attesa. Forse in quelle righe Di Paolo, condotto da alcuni assoluti, confonde un’apparenza di carenza d’effetto degli scrittori sul reale - sulla “carne del mondo” avrebbe detto Merleau-Ponty - con l’assenza di confronto dello scrittore con la “realtà” (perché così non è, e poi cita infatti alcuni autori che lo fanno).
Forse, allora, nell’articolo cercava di nominare quel grido, quella domanda di cui parla Kallir in Psicogenesi dell’alfabeto. Il grido nel vuoto dell’uomo originario, che echeggiando all’indietro risuona di tutta la sua vacuità e come risposta consegna la domanda stessa, e allo stesso tempo genera l’esistenza dello spazio “pubblico” in cui risuona. È risuonato un grido, ed è risuonato per tutti, quindi è pubblico, è lì. Ma è il mio stesso grido, e allora ho gridato proprio io. Ma questo spazio è pubblico, ed esiste, solo in funzione della mia voce. Sono solo, dunque (si dice lo scrittore). Solo, e in uno spazio pubblico vuoto: il grido dello scrittore esposto a un’epoca in cui pare che la scrittura letteraria stia perdendo peso e importanza.
Quello che io penso è che non è così. Non bisogna fare l’errore di identificare il potere della voce con il fatto che debba avere un riconoscimento “pubblico”. Una volta individuata la mia voce, io posso sussurrare le mie parole in gran segreto all’orecchio della mia amata, oppure a un amico, davanti al fuoco. Il potere della letteratura è interno ai libri, non esterno. Quello è il suo specifico, e non occorre cercarne un altro, perché non ce l’ha. Il potere della letteratura è questo: uno a uno. O agisce così o non agisce. E non è cambiato niente da questo punto di vista, rispetto agli anni Sessanta o Settanta.
Esistevano allora ed esistono oggi scrittori che vanno in tv o scrivono sui giornali. Di meno? Non posso dirlo. Certe cose non si scrivono più? Certo. Sono cambiate moltissime circostanze. Anzi, proprio dentro lo specifico della parola e dei “contenitori” in cui viene resa pubblica, è cambiato proprio tutto. I contenitori a cui mi riferisco sono quelli dell’editoria, libraria e dei giornali, delle radio e della tv, di Internet. Quelli che generano l’idea di “pubblicità”, dell’essere “pubblica” della parola originaria che risuona nel vuoto.
In che modo è cambiato tutto? In un modo essenziale, perché è cambiato proprio il “peso” della parola. Quei contenitori sono cambiati radicalmente perché hanno smesso di essere gli unici datori di autorevolezza e peso alla parola. Oggi ognuno può essere editore di se stesso. È la stessa cosa pubblicare se stesso su un social ed essere pubblicato da una storica casa editrice o su un grande quotidiano? No. Eppure, in qualche modo, sì. Cioè: non per chi conosce la differenza. Sì per tutti gli altri.
È accaduto quello che descrive perfettamente il filosofo Carlo Sini. Prendiamo L’etica della scrittura: «L’anima diviene tanto più immateriale quanto più immateriale si fa il supporto su cui la nostra scrittura si incide. Dalla pietra all’argilla alla pergamena alla carta al file, anche la nostra anima ha perso “peso”». I ragazzi di oggi, l’ho sentito dire tante volte dai professori, hanno teste più “superficiali” e al contempo polimorfe: possono fare venti cose assieme a patto di non approfondirne nessuna. È cambiata l’anima perché è cambiata la parola. Ma queste due sono cambiate per tutti.
Lo coglie Di Paolo quando nomina la “pesantezza” degli scrittori e la leggerezza del mondo là fuori: quello dei social, della satira, della comicità, di Checco Zalone. Questo è il mondo “reale”, oggi. Questo è cambiato e a questo è stato dato il nome di “spettacolarizzazione”, di “leggerezza”, di “mancanza di impegno”. Ma forse in realtà è solo cambiato il modo in cui la pesantezza, l’approfondimento e l’impegno si declinano. Intendo dire che insieme al peso delle parole è cambiato il peso dell’uomo, e dunque il rapporto tra i due è rimasto identico. Certo, questi due pesi non sono più quelli dei Sessanta o dei Settanta. Ma la cosa essenziale non è cambiata. Cos’è la cosa essenziale? Mi viene di chiamarla il testo.
Gian Arturo Ferrari, presentando al Salone del libro i dieci anni di “Gomorra” ha detto: «I libri moriranno? Se sono come Gomorra no, altrimenti sì». Io sono d’accordo. E non si riferiva alla mediazione, alla natura “pubblica”, alla risonanza su giornali e sulle tv, ma al testo. Questo, immutato e immutabile, rimane testo al di là della mutazione delle sue forme. E rimarrà testo sempre, a ogni cambiamento di peso dell’anima dell’uomo e della sua parola. Il testo. Ciò che rende un classico un classico. Ciò che ci parla sempre.
Ciò che intendo è appunto che è vero che la voce dell’uomo originario esce e ritorna a lui, e quando lo fa lo fa in una maniera che fonda l’idea di una “pubblicità”. Ma è altrettanto vero che occorre non confondere quella maniera di presentarsi di quella voce, di quel testo, da ciò che quel testo diviene dopo che è uscito. Dalla natura di quel testo. Dal suo potere. Il regno della mediazione, del megafono, dei media, del “pubblico”, del dibattito, del confronto, dell’engagement non c’entra niente col regno del testo. Perché il regno del testo è l’esatto contrario: è il regno del privato. [[ge:espresso:plus:articoli:1.264331:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2016/05/05/news/intellettuali-e-politica-michela-murgia-noi-scrittori-del-reale-in-trincea-contro-i-media-1.264331]]
Il “pubblico” è una dimensione immisurabile, una tangente, un’idealità. Più o meno spazio, più o meno visibilità, più o meno incidenza sulle istituzioni: tutto ciò è soltanto un’idea. Ciò che realmente esiste è il potere di un testo su di me. È lì che si gioca il gioco della letteratura. Non fuori. Fuori non esiste niente. Fuori è il regno vuoto della falsa idea del “pubblico” che può risuonare solo grazie a un testo. Io ho avuto la fortuna di scrivere un libro pubblicato in quaranta paesi, che è arrivato a centinaia di migliaia di persone, che si legge nelle scuole, che ha mosso l’Onu e il Parlamento Europeo a dibattiti istituzionali, per esempio.
Questo libro non ha avuto prime serate in tv, né altro di mediaticamente rilevante, perlomeno in Italia. E posso dire che l’unica cosa che continua a contare è il regno privato del singolo lettore. È lì che tutto nasce e si consuma. È solo lì che si può incidere sulla realtà, ovvero sulla coscienza di chi legge letteratura. E in questo regno gli unici regnanti sono gli scrittori, ovvero i creatori di testo. Quello è il loro potere, e finché ci sarà voce e ci sarà la capacità di generare un testo, ci sarà una reazione, l’unica che conta. Quella generata dal rapporto magico, telepatico e simbiotico tra un testo e un’altra anima. Tutto il resto, il regno del “pubblico”, è un palloncino esilissimo.
Ciò di cui si occupano i media è oggi l’opposto di ciò di cui si occupa la letteratura, ed è quindi ovvio che non ci sia più molta comunicazione tra i due, a differenza di quarant’anni fa. Infatti uno scrittore (e penso alla tv, e alla sua costruzione come “personaggio”, e mai come scrittore) entra in quell’altro regno soltanto se insieme al suo romanzo è portatore di altro: di solito un’esperienza personale. Solo se in qualche modo è un “caso umano”, o mediatico. Non interessa il testo, nel “pubblico”, perché lì non c’è il tempo per la sua fruizione, che al contrario è sempre privata.
Non c’è carenza d’effetto della scrittura sul mondo. Al contrario, c’è esattamene quello che quel testo genera. Nei lettori, nel singolo lettore. E questo potere è immenso. La sfida risiede nel sentire nel cuore il testo della propria epoca, di quale testo è fatta la propria epoca. Il resto va da sé, e in queste cose non conta. La vera questione, che Di Paolo non sfiora, è quella del tempo.