Due candidati troppo simili. Che non sono riusciti a emozionare. Così senza illusioni si va al ballottaggio al grido ironico di Totò: “Vota Antonio!”

Stefano Parisi
Ora di pranzo. Si consuma un panino all’aperto, tavoli con impiegati, quelli che una volta si sarebbero detti i “colletti bianchi”, oggi il nuovo proletariato semiurbano: tutti con casa nell’hinterland, in Brianza, ma anche verso Lodi e nel Varesotto. Macinano chilometri in auto, o più spesso sulle disagiate Ferrovie Nord appannaggio della Lega con scandali e ampio sperpero di denaro pubblico.

C’è il sole dopo una settimana di temporali e allagamenti nella metropolitana. Ovviamente si commentano i risultati: Sala contro Parisi. Mario, napoletano emigrato al Nord, imprenditore delle app, che ha aperto un coworking, accosta le mani alla bocca a mo’ di megafono: «Vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio… Italiani ricordate questo nome: Antonio La Trippa…». Ride il simpatico napoletano dal fisico segaligno e sfotte gli altri commensali. «Avete votato o no, cari amici, per il Partito Nazionale Restaurazione?». «Già», ribatte Federico, «non era facile sapere chi votare, i due candidati militano entrambi nella medesima formazione». Federico è un laureato in Comunicazione con semiologi allievi di Umberto Eco.

Città d'autore
A Napoli gli arancioni siamo noi
9/6/2016
Ha 35 anni, sposato con figli piccoli, uno dei pochi. «Sala e Parisi sono la stessa cosa: PNR». «Ma uno è alleato con Salvini e gli ex fascisti, l’altro no», contesta Mariangela che lavora in una casa editrice. «Vero», riprende Mario. «Sono uguali, ma diversi». Massimo, che si è seduto per ultimo, rampogna i colleghi di pranzo. «Non c’è alternativa», interviene, «e adesso dovremo votare Sala per non cadere nelle mani dei leghisti forcaioli come il felpato segretario con quella faccia da studente fuoricorso».

Nessuno se la sente di controbatterlo apertamente. Mugugnano mentre addentano il panino, che contiene ancora le foglie di rucola retaggio dell’epoca craxiana. Lo sconforto regna sovrano. Milano avrà un sindaco fotocopia, chiunque vinca, per quanto non siano proprio le stesse organizzazioni a sostenerli.

Mario, quello di Totò e L’onorevole, sfotte gli altri: «Comunque vadano le elezioni vincono sempre gli stessi, quelli delle nuove aree edificabili, dei milioni di metri cubi di cemento che sorgeranno nelle zone dismesse dalle Ferrovie e dalle vecchie fabbriche. Il partito del mattone è il più forte anche qui. Si fanno i soldi con quello, non con i social network o la share economy, ve lo dico io che ci ho provato».

Città d’autore
Ballottaggi, a Roma dopo i candidati sex dolls serve una baby sitter
9/6/2016
«Sei il solito pessimista, Milano non è solo le torri e i grattacieli, non è solo piazza Gae Aulenti con le sue fontane rasoterra e il bric e brac postmoderno, è anche una rete di attività legate al design, alla moda…», replica Ferdinando, un designer giovane, uno di quelli che figurano nei libri cool del momento come Designer senza design. Le sue sedie non mancano mai alla Triennale, qualsiasi mostra s’allestisca. «La città funziona. Lo sapete quante migliaia di persone sono arrivate qui per il Salone del Mobile da tutto il mondo?».

Mariangela lo guarda di traverso: «Sarà anche così, ma perché tutti si affrettano a dormire da amici, genitori e nonni per affittare il loro bilocale a giapponesi e cinesi in quell’occasione?». «Mari», replica Ferdinando quasi fosse un personaggio di Arbasino, arrotando la r, «e tu rinunceresti a 2000 euro per qualche giorno fuori casa magari dai parenti prossimi?».

Mari, che fatica con i file di autori, corregge e ricorregge, una editor, alza il sopracciglio e vorrebbe fulminarlo. «Mi sa che tu hai votato per Parisi!». «Certo!», abbozza il designer che sfodera sopra il naso una elegante montatura di legno. «Come manager mi sembra più affidabile di Mister Expo, lui sì amico di costruttori e dei petrolieri alla Moratti». «Lascia perdere i Moratti, senza anima, con tutti i soldi che hanno si sono venduti l’Inter ai cinesi, bell’esempio di attaccamento alla città e alla sua squadra». «Beh, se per quello stanno vendendo tutti, persino il Berlusca».

Città d’autore
Torino, il paradosso delle elezioni
9/6/2016
«Milano è senza dubbio la città più efficiente d’Italia, oggi forse la più moderna, ma come classe politica non ha espresso molto», riprende Mariangela, che non ha mandato giù la dichiarazione di voto di Ferdinando. «Guarda Pisapia, come mai se n’è andato? Uno che ha avuto il consenso del 60 per cento dei cittadini nei sondaggi perché rinuncia a correre per un altro mandato? Per me non è chiaro. O non sta bene di salute, o non ha il coraggio d’affrontare i problemi della città a partire dalle periferie».

«Già perché tu ci vivi in periferia, vero?», interviene Mario. Di nuovo avvicina le mani alla bocca e riprende: «Italiani, elettori, inquilini, coinquilini, casigliani! Quando sarete chiamati alle urne per compiere il vostro dovere, ricordatevi un nome solo: Antonio La Trippa! Italiano! Vota Antonio La Trippa! Italiano! Vota Antonio La Trippa!”.

Tutti ridono e finiscono di addentare il loro panino e di bere la bottiglietta d’acqua d’ordinanza, la borraccia dell’impiegato nell’attraversamento di questo deserto che è la vita metropolitana. Pian piano la piccola brigata si scioglie: ciascuno alle prese con il proprio lavoro, insieme e isolati, ciascuno nella propria celletta del grande falansterio della società liquida armato di smartphone.

Domenica quando si è votato in giro non c’era quasi nessuno di loro. In effetti sono dei consumatori della città: ci vengono la mattina e se ne escono la sera. Non votano qui, ma nelle piccole cittadine attorno, con poco meno di 5000 abitanti, lì dove le liste sono civiche e non espressioni dei partiti. Milano dà da lavorare a tutti, ma costa meno abitare altrove; e i milanesi, quelli che vivono dentro la cerchia delle mura, o nei quartieri periferici, se possono, nei fine settimana fuggono altrove.

Ieri se ne sono andati in tanti. Le percentuali di voto basse. Perché stupirsi? Non c’era, e non ci sarà neppure tra quindici giorni, una vera alternativa. Accompagno Mario, il più ironico e anche il più cinico di tutti i commensali, alla fermata del tram. Lui che è diventato ricco con le sue idee, lui che ha cavalcato la favola bella della new economy, che ha giocato in Borsa a suo tempo, che ha inventato alcune brillanti startup, che ha dato da lavorare a una banda di trentenni smanettoni ex membri dei centri sociali, sembra avere una visione lucida dell’intera faccenda.

«Li hai sentiti? Hanno ragione a dire che i due manager si somigliano. La stessa persona con due facce diverse. Forse Parisi è anche più simpatico di Sala, almeno guardandolo sui giornali o nei cartelloni. La verità è che alla fine la città delle istituzioni private, dei musei, a partire dall’Hangar Bicocca alla Fondazione Prada, ha divorato tutto quello che facevano i ragazzi dei centri sociali, li ha fagocitati, se non proprio cannibalizzati, come ha spiegato uno di loro, uno scrittore giovane e molto alla moda in un articolo. Milano l’ha fatta bella la speculazione edilizia, sono loro che hanno costruito Piazza Gae Aulenti e dintorni, per cui vengono anche dalla periferia a vedere la modernità, quasi fossero a Francoforte o Abu Dhabi. Ci vengono anche i trentenni, persino quelli contro, perché è figo berci un aperitivo. A noi della new economy restano le briciole all’ombra delle fondazioni bancarie che finanziano startup. Totò è l’essenza dell’italiano, la sua vera maschera».

Mario è troppo pessimista, ma il nuovo qui non si vede, se non la sera, quando s’illuminano le torri di Porta Nuova e tutti guardano verso l’alto attratti dal fascino delle costruzioni di vetro e acciaio. Alla fin fine Totò, mi dico, è solo un residuo del passato, retaggio di un’epoca passata, di un passato che non finisce mai di passare. Un filosofo milanese di recente ha detto: “Siamo degli urlatori, nessuno è più martire”. Urlatori dentro il megafono, come Totò: «Vota Antonio, Vota Antonio, Vota Antonio».