Tramontata la Fiat, il capoluogo ha saputo riciclarsi. E risollevarsi da una crisi economica disastrosa. Eppure Piero Fassino paga i problemi del Pd
A Torino, lo scorso 5 giugno, è andato in scena un paradosso. Che peraltro si dava per scontato. Piero Fassino, sindaco in carica, Pd, ha raccolto il 41,83 per cento dei voti ed è andato al ballottaggio con Chiara Appendino, candidata dei 5 Stelle, col 30,92. L’ex sindacalista Giorgio Airaudo si è fermato al 3,7 per cento. Il centro-destra diviso ha messo assieme poco più del 18 per cento. Ma dove sta il paradosso?
Quando Fassino s’insediò, cinque anni fa, Torino era sull’orlo della bancarotta. Si trattava del lato oscuro della cosiddetta eredità olimpica. L’ex capitale dell’auto aveva sì saputo rinnovare la propria immagine – la città dove un tempo si veniva solo se costretti, mossi dalla speranza di trovare posto alla catena di montaggio, è oggi tra le mete turistiche più apprezzate d’Italia, basti pensare che il solo Museo Egizio ha totalizzato in un anno un milione di visitatori – ma si era ritrovata col debito pro-capite più alto del Paese. Oltretutto, nel momento in cui il mondo intero veniva travolto dagli effetti della crisi innescata dalla Lehmann Brothers. Ma non solo. Perché Torino in questi ultimi decenni ha dovuto fare i conti con il definitivo tramonto di un’epoca. La Fiat, che nel 1980 contava a Mirafiori 60.000 addetti, oggi ne conta circa 6.000. E ora si chiama FCA o Fiat Chrysler Automobiles: è la globalizzazione, bellezza.
Ecco. Fassino, nel suo primo mandato, ha dovuto amministrare una città che se da un lato aveva avviato una trasformazione paragonabile in ambito europeo solo a quella vissuta da Berlino, puntando innanzitutto sulla cultura (con risultati oggettivamente notevoli: Torino è oggi la città del Salone del Libro e del Museo del Cinema, del Circolo dei Lettori e del Salone del Gusto, dei festival del Cinema e del Jazz, di un sistema teatrale che vanta il maggior numero di spettatori in Italia e di una rete di biblioteche civiche capace di fare un gran lavoro di socializzazione e integrazione in quelli che fino a ieri erano i famigerati quartieri dormitorio), dall’altro si era trovata non solo sommersa dai debiti ma anche pressoché privata di quella che lungo tutto il Novecento era stata la sua principale attività manifatturiera e dunque la prima fonte di sostentamento. Di modo che anche qui come altrove, dato che si tratta degli effetti locali di un fenomeno planetario provocato dall’avvento del Pensiero Unico neoliberista con la conseguente precarizzazione di lavoratori ed esistenze, non pochi appartenenti all’ex ceto medio hanno scoperto di non arrivare più a fine mese. Da qui, la comparsa di facce nuove alle mense pubbliche, alla distribuzione dei pacchi viveri della Caritas, e tra chi fruga nei rifiuti del mercato di Porta Palazzo in cerca di qualcosa di commestibile. Risultato: la prima voce del bilancio comunale a patire i famosi tagli (peraltro compensati dal coinvolgimento di sponsor privati, a cominciare dalla Compagnia di San Paolo) è stata proprio la cultura. E però, nella città dei santi sociali, per rinforzare il welfare. Quanto ai posti di lavoro, dopo l’emorragia seguita al ridimensionamento cittadino dell’industria automobilistica e del suo indotto, nel corso degli ultimi tre anni in realtà sono aumentati. Stando a una ricerca commissionata dal “Sole 24 Ore”, le assunzioni tra il 2012 e il 2015 hanno segnato una crescita continua: nel 2015 se ne sono registrate 178.270, ossia un +10,5 per cento rispetto all’anno precedente. Insomma: Torino non si è arresa, ha saputo resistere. Poi, sempre a proposito di trasformazione, c’è la questione urbanistica e architettonica. Ma anche qui Fassino e con lui gli amministratori di varie comunità montane si sono trovati a gestire eredità non facili, a cominciare dalle strutture edificate per le Olimpiadi del 2006.
Oggi a Torino nessuno rimpiange davvero l’epoca in cui la città veniva identificata con la grande fabbrica. Semmai, come nel resto del Paese, ci si ritrova spesso a combattere una guerra tra poveri, vedi il “disagio sociale” di quartieri come Aurora o Barriera di Milano, in cui è stato più forte l’impatto della nuova immigrazione. Sta di fatto che malgrado tutto il rinnovamento di Torino prosegue, e che a Torino si continua a parlare di innovazione e di futuro, cosa non scontata nel Belpaese dai cervelli in fuga. Al Politecnico - tra i migliori atenei d’Europa - si viene a studiare dal resto d’Italia e del mondo. Torino certo non è più la capitale dell’auto, ma qui nascono di continuo nuove startup: l’I3P, ossia il principale incubatore universitario italiano nonché uno dei maggiori a livello europeo, nato per favorire la nascita di imprese innovative in ambito tecnologico e sociale, stima di aver creato in questi anni 6.000 posti di lavoro a fronte di un costo di meno di 6.000 euro per ciascuno di essi. Per quanto riguarda la green economy, invece, a Torino ci sono state 3.000 nuove assunzioni. E di recente due aziende straniere - una americana, l’altra tedesca - hanno chiesto di impiantare proprio qui i loro centri di ricerca italiani. Non a caso, poche settimane fa Torino ha ottenuto il riconoscimento di seconda città più innovativa d’Europa. E qui veniamo al paradosso.
Il paradosso sta nel fatto che proprio l’amministrazione che a ben vedere ha per così dire salvato la baracca, assolvendo una missione che non pochi ritenevano impossibile, anziché incassare le “percentuali bulgare” a cui il Pd era abituato all’ombra della Mole è andata al ballottaggio. Ed è palese che se Fassino non è passato al primo turno è perché ha pagato non solo i problemi citati sopra, ma anche la crisi d’identità di un partito.
Crisi che viene da lontano: perché forse a questo punto è bene ricordare che il precariato è stato introdotto in Italia nel 1997, quando per la prima volta nella storia repubblicana salivano al governo gli eredi dell’ex Partito Comunista più forte d’Occidente. Per tacere dell’insofferenza nei confronti di una classe politica che, allontanatasi dalla realtà del Paese e fattasi oligarchia, ha creato essa stessa le premesse per la nascita dei 5 Stelle. Sul conto dei quali per ora qui a Torino non c’è molto da dire, visto che non hanno mai avuto responsabilità di governo e che non avendole mai avute su certe questioni tendono a svicolare (che idee hanno di preciso per quanto riguarda la cultura o l’urbanistica?) e trovano consensi tra chi per l’appunto non ne può più del “sistema” o comunque vota contro, come tanti in passato votavano per la Lega: e si tratta in effetti di un bel po’ di elettori, visto che adesso il movimento fondato da Beppe Grillo è - seppure di poco - addirittura il primo partito in città.
Beninteso, tenendo a mente che Torino è pur sempre - benché un po’ defilata lassù in alto a sinistra - in Italia. E che in Italia («il Paese in cui sono accampati gli Italiani», Flaiano) vale da che mondo è mondo la celeberrima frase che Tomasi di Lampedusa mise in bocca a Tancredi, il nipote del Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Una questione antropologica, più che politica, come già ampiamente argomentato in quell’altro evergreen che rimane il “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”. Scritto un paio di secoli fa dal recanatese Giacomo Leopardi, ma ahinoi sempre attuale.