La crisi ha coinvolto il 70 per cento delle famiglie. E anche se la crescita economica sarà robusta, interesserà il 30/40 per cento della popolazione nel 2025. Lo dice un Rapporto del McKinsey Global Institute 

povertà
Improvvisamente la povertà è diventata un tema dell'agenda politica. I quattro milioni 958 mila italiani sotto la soglia dell'auto-sostentamento appena contati dall'Istat, e i 6 milioni di quanti vivono con una pensione sotto i mille euro contati dall'Inps, hanno smosso il Parlamento ad approvare il reddito d'inclusione, che impegnerà una spesa di 1,6 miliardi in due anni per le famiglie che rientrano nei parametri del grande disagio.

Basterà questo a infondere un senso di giustizia sociale nella comunità che ha visto in questi anni di crisi aumentare le differenze di reddito e di opportunità? Basterà ad invertire il nichilismo che fa dire ai nostri ragazzi, interpellati di recente dall'Aiesec (una organizzazione internazionale interamente gestita da studenti) di Roma Tre, per un sondaggio su oltre 160 mila giovani di tutto il mondo, che “avere uno scopo nella vita non è una priorità”, e che alla domanda su come sarà la società futura, uno su due pensa che sarà peggiore?

Dispiace dirlo, ma ci vuole ben altro. Perché la malattia di cui siamo ormai collettivamente contagiati – noi come la maggioranza dei paesi sviluppati dal 2005 in poi – non è neanche più l'aumento della diseguaglianza tra i super-ricchi e gli altri, ma si chiama declino del benessere di lungo termine, e riguarda la quasi totalità della popolazione.

“Poorer than their parents? Flat or falling incomes in advanced economies” l'ultima ricerca del McKinsey Global Institute (l'istituto di ricerca della società di consulenza, considerato il primo think thank mondiale a livello privato), indaga cosa è successo dopo la crisi finanziaria ai redditi delle famiglie, e quanto questo è da attribuire alla debolezza della ripresa o quanto è provocata da fenomeni più profondi. Soprattutto, proietta sulla generazione dei figli una condanna a crescere più poveri, con prospettive di lavoro più fosche e mansioni meno qualificate. Una esperienza che le generazioni vissute dopo la seconda guerra mondiale e fino agli anni Settanta non avevano mai vissuto.

Tra il 1993 e il 2005 le famiglie che avevano sofferto un peggioramento del reddito rispetto al passato erano non più del due per cento nelle 25 economie più avanzate che fanno il 50 per cento del Pil globale: circa 10 milioni di persone. Tra il 2005 e il 2014 a fare l'amara esperienza di un crollo del benessere, vuoi per i rovesci finanziari, vuoi per la diminuzione dello stipendio, sono state 580 milioni di persone, il 70 per cento delle famiglie. Gli interventi pubblici – sgravi fiscali, trasferimenti – hanno diminuito la gravità del fenomeno riducendo il numero a 210 milioni, ma è comunque svanito il 20 per cento circa del reddito. E lo scenario è tutt'altro che roseo. Secondo Mgi, nel prossimo decennio le cose non miglioreranno (a meno di robusti interventi di policy), minando la crescita economica di fondo.

L'Italia (uno dei paesi su cui Mgi fa un ingrandimento), rappresenta il caso estremo: “è il paese in cui i redditi sono rimasti piatti o sono crollati virtualmente per tutta la popolazione”, scrive il rapporto. Il sacrifico quindi non ha toccato solo la classe media ma, anche se in diversa misura, tutte le fasce di reddito. La Svezia è il caso all'estremo opposto: soltanto per il 20 per cento della popolazione il reddito ha perso terreno. In mezzo ci sono i caso di Olanda (per il 70 per cento), Francia (per il 63 per cento), Gran Bretagna (per il 70 per cento) e Usa (per l'81 per cento).

E gli effetti non si traducono solo in un crollo dei consumi. O nella necessità di aumentare la spesa pubblica per il welfare, o di diminuire le tasse. Quello che Mgi mette in luce lo ha già messo a nudo la Brexit, o l'avanzata delle destre e del populismo in mezza Europa. È l'effetto corrosivo sulle nostre società, quel veleno per cui mentre si allontana la speranza di lasciare ai propri figli una prospettiva di vita migliore, si incolpano gli immigrati e la globalizzazione di rubare lavoro e benessere.

Ma quali sono le cause dell'impoverimento? Anche se impattano in modo diverso nei diversi paesi, si indicano come responsabili il declino della produttività e la capacità del lavoro di proteggere la propria quota di reddito nazionale soprattutto nelle fasce di reddito più basse. Anche quella parte del reddito che viene dagli investimenti finanziari ha avuto i suoi problemi, visto che dopo un ciclo di vent'anni di aumenti, la prospettiva è che i rendimenti saranno sempre più magri. Infine, c'è il fenomeno della porzione di prodotto interno destinata agli stipendi che declina, con una quota sempre più ampia che invece va a remunerare il capitale.

Nel caso dell'Italia, una causa è stata anche l'austerity, afferma il rapporto.

In giro per il mondo infatti i governi si sono dati da fare per contrastare o compensare l'effetto della crisi sui redditi. C'è chi c'è riuscito, come la Svezia (che ha potuto muoversi liberamente dato il basso livello del suo debito pubblico), o come gli Usa, dove è stato ribaltato grazie alla mano pubblica il crollo degli introiti delle famiglie. Da noi no: per tutte le varie fasce di reddito, dalla più bassa alla più alta, l'austerity, aumentando le tasse e riducendo alcuni benefici, ha provocato essa stessa un calo del  reddito disponibile per tutti, nessuno escluso.

Il futuro non sarà migliore. Se il trend della crescita economica continuerà al passo tenuto finora, si allargherà la fetta delle famiglie che dovranno affrontare la marcia indietro del reddito: dal 70 all'80 per cento. E i governi dovranno fare uno sforzo titanico in termini di risorse per sostenerle. Se, invece, la ripresa dell'economia dovesse essere più sostenuta (il che vuol dire una crescita del Pil dell'1,3 per cento in Italia, dell'1,8 per cento in Francia e del 2,4 negli Usa), accompagnata da un aumento della produttività, allora per la maggioranza delle famiglie le cose andrebbero molto meglio. Ma resterebbe comunque una quota tra il 10 e il 20 per cento con seri problemi di reddito.

A pagare il prezzo più alto saranno i giovani. Come lavoratori, soprattutto se con una formazione più debole, saranno quelli che soffriranno di più la disoccupazione e la condanna di paghe più basse, come già dimostrato negli ultimi anni dal fatto che l'Italia ha il record, nel confronto con Francia e Usa, della perdita di retribuzione per gli under trenta (intorno al 20 per cento). Ma tra i paesi esaminati dal rapporto Mgi abbiamo anche un'altro primato: quello di aver ottenuto l'appiattimento delle retribuzioni anche per gli stipendi dei lavoratori con la preparazione più elevata, a causa di una pressione fiscale sopra la media.

Il fenomeno epocale descritto dal think thank di McKinsey ha un'altra caratteristica. Rischia di essere un trend senza fine, se davvero, come prevedono alcuni economisti, siamo nel bel mezzo di una secular stagnation, una stagnazione secolare.

Ma se anche questo non fosse, c'è un altro pericolo in agguato per il futuro dei nostri figli: la concorrenza dell'automazione crescente del lavoro (il 30 per cento dei lavori negli Usa potrebbero essere rimpiazzati dalle macchine intelligenti). Alla fine dei conti, resterebbe sempre una quota importante, il 30/40 per cento della popolazione, che nel 2025 si ritroverebbe sempre con un reddito non sufficiente per vivere come i propri padri.

Un declino che solo un complesso di interventi su più fronti (dalla riforma del sistema di istruzione a quello della retribuzione) potrebbe interrompere. Oppure un massiccio piano di investimenti in infrastrutture. Mgi stima che rilanciando l'investimento in opere pubbliche e la produttività in Europa si darebbe una spinta alla crescita del Pil tra il 2 e il 3 per cento l'anno. Poi c'è la leva delle tasse, del welfare, dell'aumento del tasso di partecipazione al lavoro... insomma occorre mettere mano a tutte le ricette a disposizione.

Troppo difficile?, si chiede Mgi. Ma la condanna al declino di una porzione così ampia della popolazione dovrebbe interessare tutti, afferma, e non solo chi ha un reddito declinante, collaborando a sostenere lo sforzo. Affinché il benessere riparta. Come è avvenuto sempre, in fondo, nel corso di tutta l'età moderna.