L'Europa blinda i confini con mezzi e soluzioni militari. Un affare miliardario, che ingrassa proprio le aziende di armamenti che alimentano i conflitti dai cui scappano i rifugiati. Ecco le accuse di un report appena pubblicato. Che chiama in causa anche Finmeccanica

Un business in piena crescita e che, con un cortocircuito perverso, alimenta e allo stesso tempo si nutre delle tragedie di decine di milioni di persone costrette ad abbandonare i propri paesi per sfuggire a guerre, dittature, violenza, povertà estrema. E' il mercato della messa in sicurezza delle frontiere dell’Europa, quelle che ogni giorno rifugiati e migranti cercano di superare, finendo respinti, detenuti in condizioni disumane o affogati in mare.

Nel 2015 questo mercato valeva 15 miliardi di euro, entro il 2022 si stima che schizzerà sopra i 29 miliardi, mentre Frontex, la controversa agenzia europea per la gestione comune delle frontiere dell'Unione, è arrivata ad avere un budget di 238,7 milioni di euro contro i 6,3 del 2005, una cifra che segna un aumento del 3.688 percento negli ultimi undici anni.

Chi si arricchisce grazie a questo business? I giganti degli armamenti e della sicurezza, come Finmeccanica, Airbus, Thales, Safran, Indra. E tre di questi Golia (Finmeccanica, Thales e Airbus) sono tra le prime quattro aziende esportatrici di armamenti in Medio Oriente e in nord Africa, alimentando così proprio quei drammatici conflitti da cui milioni di disperati fuggono.

E' questa la realtà fotografata dal rapporto “Border Wars” delle organizzazioni “Transnational Institute” e “Stop Wapenhalden”, con sede in Olanda, e rilanciato in Italia dalla “Rete Italiana per il Disarmo” (www.disarmo.org).

Un rapporto che ricostruisce protagonisti, cifre e racconta la pesante azione di lobbying sulle istituzioni europee da parte di queste aziende della sicurezza e della difesa, smascherando l'ipocrisia che circonda il dibattito pubblico su migranti e rifugiati, in cui le responsabilità vengono troppo spesso scaricate su trafficanti e scafisti, anziché sui conflitti all'origine di questa tragedia e sui fabbricanti di armi che li alimentano.

Nel 2015, secondo l'Alto commissariato Onu per i rifugiati, 65,3 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case o dai loro paesi a causa di conflitti e persecuzioni, una persona su 113 nel mondo, ventiquattro al minuto. La stragrande maggioranza di questi disperati si è riversata sui paesi confinanti, mentre si stima che solo un milione di loro abbia raggiunto l'Europa. «Nonostante ciò», scrivono i ricercatori olandesi nel loro report, «il dibattito sui media e nelle istituzioni europee è dominato da un panico senza precedenti. E il 2015 e il 2016 hanno visto una cupa corsa alla messa in sicurezza delle frontiere, con un crescente uso di mezzi e personale militare».

Le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani avvertono da tempo che la militarizzazione dei confini non fermerà il flusso dei rifugiati e li costringerà invece ad affrontare rischi sempre maggiori, tipo quello di scegliere rotte sempre più rischiose, una scelta questa che ha trasformato il mar Mediterraneo in una trappola mortale: l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (International Organisation for Migration) ha stimato che nel 2015 sono morti o dispersi in mare 3770 migranti.

Eppure, come nota il report, la risposta dell'Unione europea a questa tragica conta dei morti è semplicemente quella di aumentare la sicurezza delle frontiere. A parte i politici di estrema destra che incassano i dividendi elettorali della retorica xenofoba, uno dei maggiori beneficiari di questa risposta dell'Europa sono proprio le aziende europee di armamenti e sicurezza: Finmeccanica, Thales, Airbus, Safran, Indra.

E' difficile conoscere con esattezza il valore del mercato della sicurezza delle frontiere, perché non è trasparente: tutto quello che abbiamo sono stime di aziende di consulenza come “Visiongain” e “Frost & Sullivan”. La prima valuta che nel 2015 il mercato ammontasse a 15 miliardi di euro e la seconda prevede che supererà i 29 miliardi entro il 2022.

Airbus, che offre soluzioni che vanno dagli elicotteri ai sistemi di comunicazione e radar per il controllo delle frontiere, realizza ricavi di circa 200 milioni di euro all'anno con questo business. Finmeccanica l'ha individuato fin dal 2009 come uno dei settori prioritari e offre tecnologie che vanno dai sistemi biometrici per l'identificazione di migranti fino agli elicotteri AgustaWestland, usati in molti paesi europei e spesso acquistati proprio grazie ai fondi dell'Unione.

Le tecnologie del gigante di piazza Monte Grappa sono anche utilizzate per il programma della Nato “Alliance Ground Surveillance” (Ags), una sofisticata rete di stazioni di rilevamento, sensori, sistemi di trasmissione ed elaborazione delle immagini raccolte dai droni, che entrerà in funzione nel 2017 presso la base dell'Aeronautica militare italiana di Sigonella, in Sicilia, e che, oltre a proteggere le truppe Nato, servirà a sorvegliare i confini.

Thales si è buttata a capofitto in gare per la fornitura di sistemi satellitari e biometrici a paesi dittatoriali come il Turkmenistan e l'Uzbekistan. La multinazionale francese della difesa “Safran” si occupa di frontiere attraverso la controllata Morpho, particolarmente specializzata in sistemi biometrici. Nel 2015 il 9,2% dei ricavi della Safran è arrivato proprio dagli affari nel settore “identificazione e sicurezza”, per un totale di 1,6 miliardi di euro. Infine, l'azienda spagnola “Indra”, che opera nella difesa, sostiene di contribuire a proteggere oltre 5000 chilometri di confini in vari paesi ed è molto attiva nell'azione di lobbying a livello europeo e nell'incassare i fondi di ricerca.

Oltre alle multinazionali europee della difesa, le aziende israeliane sono le uniche ammesse ai fondi europei per la ricerca nel settore, in virtù di un accordo del 1996 tra Unione europea e Israele. E capitalizzano la loro “reputazione” nel saper gestire le frontiere a rischio, come il muro di separazione della West Bank. Le tecnologie e le soluzioni israeliane nel settore vengono considerate affidabili in quanto hanno superato il test sul campo, al punto che nel 2015 Ungheria e Bulgaria hanno valutato di acquistare le recinzioni israeliane al prezzo di 1,9 milioni di dollari al chilometro.

Oltre alle barriere fisiche, Israele offre soluzioni cyber come quelle dell'impresa “Elta”, controllata dell'azienda di stato Israel Aerospace Industries: Elta vanta un sistema di controllo delle frontiere basato sulla sorveglianza elettronica di social network e telefoni, due sistemi efficienti per localizzare i rifugiati e spiarli efficacemente e con poche risorse.

A partire dal 2002, l'Europa ha finanziato 56 progetti di ricerca nel settore della protezione delle frontiere, per un totale di oltre 316 milioni di euro e tra i maggiori beneficiari di questi fondi ci sono proprio aziende come Finmeccanica, Airbus, Indra, Thales, Safran, presenti in gruppi di lobbying come la “European Organisation for Security” (Eos), guidata da Andrea Biraghi di Finmeccanica, che insieme con la “Aerospace and Defence Industries Association of Europe” (Asd) e il think tank “Friends of Europe” sono le organizzazioni più attive nel fare pressione sull'Unione per la messa in sicurezza delle frontiere.

Non esiste un quadro completo dei costi di queste spese di lobbying, ma secondo i dati del registro europeo sulla Trasparenza (EU Transparency Register), negli ultimi 5 anni Airbus ha speso 7,5 milioni di euro, Safran 2 milioni e Finmeccanica e Thales un milione ciascuno. Ma mentre i lobbyisti della militarizzazione delle frontiere hanno gruppi di pressione dotati di enormi risorse e godono dell’accesso diretto ai policy-maker dell'Unione Europea, Ong e società civile sono praticamente tagliate fuori e impotenti. Come fa notare il professor Hein de Haas, già direttore dell'International Migration Institute dell'università di Oxford, «un sacco di soldi vengono destinati al controllo delle frontiere, ma questa scelta non va al cuore delle cause dell'immigrazione. Al contrario, va a favorire due gruppi: i trafficanti e l'industria del controllo delle migrazioni, mentre la sofferenza e i morti alle frontiere di migranti e rifugiati aumentano».

Per cercare di fare luce sulle spese per gli armamenti alla base dei tanti conflitti che creano la tragedia dei rifugiati, la Rete Disarmo, che in Italia ha rilanciato il report “Border Wars”, punta a creare MIL€X (www.milex.org), un osservatorio italiano indipendente che punta a raccogliere e ad analizzare dati oggettivi. «La produzione di armi e di tutti i sistemi correlati», dichiara a l'Espresso Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, «si regge sulle spese militari dei governi. Sono loro i principali acquirenti. Ed è per questo che è fondamentale capire precisamente estensione, tipologia e dinamiche della spesa militare, a partire da quella italiana». Con un gigante in casa come Finmeccanica, di un osservatorio indipendente come MIL€X l'Italia ha tremendamente bisogno.