Per non essere espulsi dall'Italia migliaia di giovani, spesso immigrati di seconda generazione bene integrati e nel nostro paese da quando sono piccoli, devono dimostrare di avere un reddito sufficiente. "Sentirsi italiani non può avere a che fare solo con i soldi"
Non è un Paese per studenti, specie se sono stranieri. Di quelli non ricchi, che hanno bisogno di lavorare per pagarsi gli studi, che non hanno alle spalle una famiglia benestante che li supporti. E che spesso quando arrivano all’università rischiano di diventare illegali, un modo diverso di definire i clandestini, e si trovano costretti a scegliere tra lo studio e il permesso di soggiorno.
Il primo pretende che gli venga dedicato tanto tempo e il secondo richiede che venga dimostrato un reddito. Riuscire in entrambi è quasi impossibile. Ecco quindi che ragazzi di seconda generazione, arrivati in Italia negli anni Duemila, si ritrovano quasi vent’anni dopo a studiare sotterfugi per poter restare ancora in quello che è ormai diventato il loro Paese.
I casi sono
migliaia. I permessi di soggiorno che all’inizio sono concessi per motivi familiari, raggiunta la maggiore età vengono trasformati in documenti per motivi di studio. In questo caso gli studenti sono costretti con una cadenza almeno annuale a lunghe file davanti alla questure. Sono chiamati ogni volta a dimostrare di essere ancora studenti e quando non ci riescono, perché hanno sospeso gli studi o sono finiti fuori corso, allora devono presentare un reddito. In tanti casi ciò che portano non basta, anche per colpa del tasso di disoccupazione giovanile. Sono ragazzi che parlano perfettamente l’italiano, spesso fanno da mediatori culturali e interpreti, e sono in perenne rischio espulsione.
Ancora più complicato tentare di diventare
cittadini italiani. Prestare il giuramento di fedeltà alla Repubblica per molti è solo un sogno che si portano dietro da anni.
L’ultimo caso arriva da
Reggio Emilia. Protagonista Ihssan Ait Yahia, 24 anni, trascorsi in buona parte in Italia. Studia giurisprudenza, per cinque anni è stata pioniera della Croce rossa e ora è presidente di un’associazione interculturale giovanile. Di lei si può dire tutto tranne che non sia integrata.
Per lo Stato però non è sufficiente: la settimana scorsa si è recata in prefettura a chiedere aggiornamenti sulla sua pratica per l’ottenimento della cittadinanza. E’ stata semplicemente respinta. «Il suo non profilo non raggiunge il reddito minimo per poterla ottenere. Sarebbe meglio, signorina, che lei andasse a lavorare invece di frequentare l’università», le ha detto l’impiegata.
«E’ stata una giornata umiliante. Mi sono sentita rifiutata da uno Stato che ho sempre considerato mio», racconta Ait Yahya, «Sono stata colta da un attacco di panico perché in quell’istante ho visto tutti i miei sogni frantumarsi. Non potete avere idea di cosa si provi a sentirsi non degni di essere italiani perché troppo poveri».
Ihssan non si vuole rassegnare. «
Sentirsi italiani non può avere nulla a che fare con il reddito. Io ho sempre fatto in modo di essere una risorsa per questa società mettendomi in gioco ogni qualvolta venivo chiamata. Sono fiera di vivere in un Paese con una Costituzione così bella ma per ora la mia cara Italia ha deciso di tenermi in panchina in attesa che la mia situazione economica muti. Io invece vorrei che mutasse prima di tutto la legge».
Diverse associazioni si sono mobilitate per il caso di Ait Yahya, in attesa che venga sbloccata la riforma della cittadinanza ora bloccata al Senato dopo l’approvazione alla Camera. Il testo prevede l’introduzione di
Ius soli temperato e ius culturae: con il primo otterranno la cittadinanza tutti i nati in Italia con un genitore in possesso di un permesso di lungo periodo. Con lo ius culturae invece saranno considerati italiani i ragazzi arrivati in Italia entro i 12 anni che abbiano concluso almeno un ciclo di studi. Ne beneficerebbero oltre 800mila persone.
Attualmente chi nasce in Italia da genitori stranieri viene considerato un
immigrato, come tutti gli altri, fino ai 18 anni. Ha poi un anno di tempo per chiedere la cittadinanza. Nel caso non rispettasse questa scadenza dovrà seguire l’iter di concessione per anzianità di residenza. Dimostrare quindi di essere residente nel Paese da dieci anni e attendere dai due ai quattro anni per l’ottenimento del nuovo status.
Spesso però gli
studenti stranieri faticano a mantenere persino il permesso di soggiorno. Un’odissea burocratica, che brucia tempo e denaro, a cui sono condannati tanti universitari di origine straniera. E qualche volta risulta davvero difficile essere in regola con i documenti.
E’ emblematica la storia di una studentessa di origini marocchine che frequenta l’università di Bologna. Arrivata in Italia nel 1998, 16 anni dopo si è ritrovata irregolare perché ha mancato una scadenza di quattro giorni. «Ho atteso otto mesi per ricevere un rigetto della mia domanda. Ci hanno messo otto mesi per dirmi che il mio permesso di soggiorno non è più valido e che quindi non potevo più lavorare, studiare o prendere una casa in Italia. Questo perché da sempre non ho mai avuto il reddito sufficiente. I lavoretti part-time che ho sempre ottenuto non mi hanno mai aiutato. Pur di poter respirare sono stata costretta a farmi assumere come
colf e pagare di tasca mia i contributi. Era l’unico modo per avere un reddito minimo. E io faccio l’educatrice e spesso ho incarichi da interprete per tradurre a persone che hanno la cittadinanza ma che non sanno ancora parlare l’italiano. Quelle persone sono ricche, io no. Ed è ciò che conta per il nostro Stato. Sì, dico nostro perché nonostante tutto sento di farne parte. Alla partita mi ero ripromessa di non tifare per l’Italia, ma al primo gol dei tedeschi mi sono messa a urlare contro la Germania. Volenti o nolenti noi siamo parte di questo Paese. Attendiamo solo di essere riconosciuti con la dignità che meritiamo».