Ispirata agli intrecci di potere tra Roma, Ostia e Vaticano, la serie brilla per qualità di confezione. Non per originalità creativa

La premessa è che negli ultimi anni, con massima convinzione, alcuni osservatori hanno sostenuto che le serie televisive fossero una risposta postmoderna alle fragilità giornalistiche. La tesi in campo, insomma, era che l’informazione arrancasse per carenza di capacità, libertà e forse pure coraggio, mentre sposando il reale con la fantasia le cose sarebbero andate meglio.

Parole che spesso hanno trovato conferma nei fatti e negli ascolti. Persino la timida televisione generalista nostrana ha cucinato a più riprese in salsa fiction i temi caldi della contemporaneità agevolandone in qualche misura la metabolizzazione sociale. Come pure gli Stati Uniti - salendo brutalmente di categoria - hanno utilizzato il tramite della serialità per riflettere sulle perversioni più o meno occulte dei singoli esseri umani, del potere costituito e della nazione in generale.

Dopodiché, però, si è presentato un imprevisto a increspare il lago delle certezze. E questo intoppo made in Italy si chiama Suburra, il tele-corpus di dieci puntate trasmesse ora da Netflix e poi da Rai2. La trama, in briciole, parte dalla pornografia relazionale tra politica, criminalità organizzata di Roma e Ostia e porporati d’Oltretevere per arrivare a un affresco irreversibile del degrado morale in corso. Operazione carica di qualità, va premesso, con maestria visiva e altrettanto solida presenza attoriale (garantita da un cast che include Claudia Gerini, Filippo Nigro e Giacomo Ferrara).

Solo che tutta questa potenza di fuoco in bilico tra stile gomorrico, la trilogia sempre Sky sugli anni di Mani Pulite e un’aggiunta scaltra di gusto classico, ha per oggetto sociale il copiare le cronache. Nel senso che la storia, nei dettagli strutturali, è inedita, mentre la sostanza è identica a quello che la ragnatela dei media ci ha già consegnato: Carminati qui chiamato Samurai, madame Chaouqui tradotta nel personaggio di Sara Monaschi e tutto il resto attorno a ribadire l’opacità della Capitale in odore di violenza e ricatti. Abbastanza per appassionarsi a questo video-prodotto fino all’ultima puntata, ma anche per sancire un passo indietro strutturale con lo spostamento del baricentro della forza d’urto dal fronte del contenuto a quello della confezione.

Questa è l’ultima rubrica che firmo su L’Espresso. Lascio il giornale dopo 17 splendidi anni di lavoro e amicizia. Prima di affrontare una nuova avventura professionale, però, voglio dire grazie all’azienda che mi ha concesso totale libertà di espressione, ai direttori - partendo da Tommaso Cerno - con i quali mi sono confrontato, alla redazione tutta e alla fantastica segreteria. Quanto alla tv, beh, ciò che avevo da scrivere l’ho scritto senza reticenze. Grazie anche e soprattutto a voi, cari lettori, per avermi dedicato il vostro tempo.