Il testacoda nei rapporti con Mosca. I continui cambi  di rotta. Le inutili esibizioni militari e muscolari. Nessuno prende più sul serio la geopolitica Usa

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Un anno dopo resta, inevasa, la stessa domanda: c’è del metodo nella follia di Donald Trump in politica estera? Il pendolo oscilla tra due risposte opposte e l’incertezza agita un mondo che, se non ha bisogno di eroi, avrebbe la necessità di coltivare qualche certezza sugli orientamenti del presidente di quella che tuttavia resta la prima potenza mondiale. Posizione oggi minacciata (ed è la vera novità) dall’esplicito interesse geopolitico di una Cina che finora si era limitata a inseguire il gigantismo economico.

Questo preteso nuovo ruolo di Xi Jinping suona come una sconfitta per la strategia primigenia del miliardario alla Casa Bianca. In campagna elettorale e nei primi mesi del suo mandato aveva inviato chiari segnali su come si immaginava dovessero essere spartite le aree di influenza globali. Aveva puntato su un rapporto privilegiato con Mosca, in funzione anti-europea ma soprattutto anti-cinese. In una sorta di ritorno al passato ma senza Guerra Fredda e anzi con un’inedita alleanza, come a dire: caro zar Vladimir, tra uomini forti ci intendiamo, tocca a noi. Il profluvio di rivelazioni sulle relazioni pericolose tra il suo staff e il Cremlino, peraltro in odore di ingerenza nel voto americano, cioè nella massima espressione dell’esercizio della democrazia, lo hanno obbligato a cambiare rotta, pena la conferma implicita dei sospetti di intelligenza con quello che in molti strati dell’opinione pubblica americana e principalmente al Pentagono viene ancora vissuto come un nemico. Quasi fossimo ancora in pieno sovietismo.
Analisi
Trump un anno dopo: America first, anzi last
31/10/2017

Fallito il piano A, semplice ma nitido, il resto è stato un procedere random seppur con una costante che permea tutte le prese di posizione di The Donald: picchiare il pugno di ferro sul tavolo per precostituirsi una posizione di forza a beneficio di futuribili trattative, come avviene sui tavoli economico-finanziari, quelli che meglio conosce. Da qui le minacce di interventi militari praticamente in ogni angolo del pianeta, ultimo il preallarme per i bombardieri nucleari B52, cosa che non avveniva dal 1991, in funzione anti-Corea del Nord. A dispetto della nostra visione eurocentrica, è del resto nel Pacifico che si gioca la partita per la supremazia. Là stanno i principali attori antagonisti e l’iniziale scelta di Putin come partner rispondeva alla logica di contenimento di Pechino, peraltro l’altro corno dell’annunciato G2 destinato a dominare il Ventunesimo secolo prima che lo stesso Putin reclamasse con l’irruenza che gli è propria il ruolo del terzo incomodo. L’atomica coreana, la bomba in mano a un regime dispotico, assolutista e irresponsabile, è del resto un tema irrisolto da almeno tre presidenti americani. Non aveva portato frutti la politica della pazienza di Obama e Bush figlio, non sembra portarne la postura muscolare della nuova amministrazione di Washington.

Su un altro Paese dell’ “asse del male” (copyright di Bush), l’Iran degli ayatollah, aveva concentrato l’attenzione diplomatica Obama sino a strappare un accordo sul nucleare che la Casa Bianca ha comunicato a più riprese di voler disdire. Per segnare una soluzione di continuità con il primo presidente nero e ristabilire un’amicizia sfilacciata con i tradizionali partner dell’area (Israele e Arabia Saudita). Il Medio Oriente non è più cosi cruciale per gli Stati Uniti che hanno ormai raggiunto l’autosufficienza energetica. Su quello scacchiere altamente infiammabile non si apprezzano dunque strategie di lunga durata ma iniziative che rispondono a interessi momentanei quando non a particolari umoralità.

A favore di Trump va ascritto l’impegno profuso per annientare finalmente lo Stato islamico di Abu Bakr al-Bghdadi. Contro, l’abbandono al loro destino dei suoi migliori alleati, i peshmerga così decisivi nella presa di Mosul. La stessa timida protesta con il governo filo-sciita di Baghdad per la sua offensiva anti-curda su Kirkuk è caduta inascoltata se non irrisa. A dimostrazione del corollario ineluttabile prodotto dalle stravaganze di The Donald: pochi Paesi, oggi, sono disposti a prendere sul serio l’America, a riconoscerne l’autorevolezza e la capacità centrale di influire come un tempo sui processi decisionali del pianeta.

Del resto lo slogan efficace e vincente di Trump in campagna elettorale, “America first”, sembra permeare le scelte-guida sul terreno impervio della politica estera. La faccia truce col Messico è conseguente alla volontà di compiacere quella parte bianca della popolazione che si ritiene minacciata dalla supposta “invasione” dei migranti. Il raffreddamento dell’apertura verso Cuba (altro punto d’orgoglio di Obama) e le parole estreme con il Venezuela fino alla minaccia militare, servono a dimostrare il desiderio di mettere ordine nel tradizionale “cortile di casa”. Ma Maduro non si spaventa, Raùl Castro nemmeno, come ad altre longitudini Kim Jong-Un (dittatore nordcoreano), Hassan Rouhani (presidente iraniano), Haydar al-Abadi (primo ministro dell’Iraq). E nemmeno l’Europa, solitamente più condiscendente verso le volontà di Washington per via dell’ereditato debito di riconoscenza dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale, è più disposta a riconoscere una leadership ondivaga e inaffidabile. Dunque flebile.

Proprio per marcare una diversità tra le due sponde dell’Atlantico, dopo l’elezione di Donald Trump che sembrava annunciare un’irresistibile vague populista, gli elettori del Vecchio Continente, impauriti da un salto nel buio pieno di incognite, hanno corretto quell’inerzia scegliendo il verde Alexander Van der Bellen per la presidenza dell’Austria (dicembre), respingendo il superfavorito l’islamofobo Geert Wilders a favore del liberale Mark Rutte in Olanda, plebiscitando il prediletto delle élite Emmanuel Macron per l’Eliseo contro l’ omologa di Trump in Francia, Marine Le Pen. Se il voto politico di questo autunno a Berlino (parzialmente) e a Vienna hanno riproposto lo spauracchio di uno spostamento verso l’estrema destra, non è tuttavia successo a discapito di una sostanziale tenuta dei partiti di sistema. Angela Merkel sarà ancora la cancelliera di una Germania ormai liberata, almeno in politica, dal tabù delle sue colpe storiche. E non per caso capofila di quella opposizione all’interno dell’Occidente all’invadente Trump che ha bollato come “cattivo” il popolo tedesco a causa del massiccio surplus commerciale, arrivando a ipotizzare l’imposizione di dazi sul “made in Germany”: per frenare l’esuberanza produttiva del Paese riunificato che sta provocando problemi anche, è vero, agli altri Stati europei.

E torniamo all’economia, stella polare della presidenza del magnate (“It’s the economy, stupid!”). La stessa basilare esigenza per cui gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo sul clima siglato a Parigi, disattendendo un impegno preso come se i patti sovranazionali potessero essere ridotti dalla sera alla mattina a carta straccia. Sono stati proprio gli esempi di proterva arroganza, nel nome del “politicamente scorretto” che suona per un certo pubblico come “sostanzialmente giusto”, a far risorgere per eterogenesi dei fini un nuovo spirito europeista in nuce. Una sorta di riflesso identitario per opposizione a un’idea non condivisa di cosa debba essere una democrazia matura. Trump, in questo ottimo epigono di una tradizionale visione americana, avrebbe preferito un’Europa disunita, tantopiù nell’epoca di un euro che, seppur con tutte le sue debolezze, continua a rivaleggiare col dollaro. Stesso obiettivo di Vladimir Putin. I due, costretti dalle circostanze a non potersi amare in pubblico e a coltivare una relazione clandestina, continuano ad avere molte caratteristiche in comune, seppur tra alcune divergenze (soprattutto sul ruolo di Bashar Assad nel futuro Medio Oriente). Ma il regno dello zar è eterno, quello di The Donald, soprattutto per i tempi veloci della politica, ancora lungo. Avranno tempo e modo per uscire allo scoperto. E per cercare di mettere in un angolo gli altri attori a vario titolo ingombranti: l’Europa troppo democratica e attenta ai diritti, la Cina che pretenderebbe, guarda un po’, di sedersi al tavolo dove si distribuiscono le carte.
di Gigi Riva