Per combattere le disparità sociali servono formazione, fondi. E istituti aperti alla città, capaci di costruire relazioni. Save The Children e Treccani pubblicano un Atlante sull'infanzia a rischio in Italia dedicato alle classi. In cui mostra le ferite della crisi (la povertà, l'isolamento, l'ansia). E prova a proporre delle strade. Per riprendere il futuro del paese. A 50 anni da Don Milani
Nel 1961 entravano in classe ogni mattina 12 milioni di alunni. Oggi la campanella ne porta sui banchi otto. L'Italia che invecchia ha perso quattro milioni di bambini e adolescenti. E i ragazzi che ha, li lascia troppo spesso ai margini. Schiacciati dal peso di un'economia rimasta a fragile a casa e dall'ansia di prove rimaste obsolete alla cattedra. Eppure, c'è chi resiste. Chi segna una via per raddrizzare il futuro, dare una prospettiva alle generazioni che lo faranno, il futuro del paese.
Come? Aprendo le scuole: trasformandole in luoghi vissuti dalla città. Innovando la didattica, partendo soprattutto dalla formazione degli insegnanti, al contrario di quanto fatto finora. E poi: aumentando le risorse, oggi troppo basse in percentuale al Pil.
Sono alcune delle strade segnate dall'ottavo “
Atlante dell'infanzia a rischio” di
Save the Children, pubblicato da Treccani e dedicato alle risposte che l'istituzione scolastica può e deve dare al presente. Un viaggio di oltre trecento pagine fra centinaia di esperienza, che sarà in libreria a fine novembre. A 50 anni dalla scomparsa di Don Lorenzo Milani il paese prova a rimettere l'insegnamento al centro.
Perché è dalla scuola, ribadisce il dossier, che bisogna cominciare a combattere la disuguaglianza. Alcune delle pagine più dense del rapporto sono affidate infatti al problema delle disparità economiche e sociali, che la crisi ha contribuito ad aggravvare e che diventano abissi se il merito inizia a bloccarsi sui banchi. Per questo sono allarmanti, ad esempio, i dati riportati nell'Atlante sui risultati profondamente differenti degli alunni ai test Invalsi non solo fra regioni, o fra quartieri di una stessa città.
Ma anche all'interno di uno stesso istituto: significa che
l'abitudine a creare classi-ghetto contro sezioni di serie A per i figli eccellenti sia ancora troppo diffusa. Soprattutto a sud, per le elementari, e a nord est alle superiori. E visto che a condizionare l'inserimento in uno dei due binari è ancora il reddito, o la provenienza, e non la prospettiva di successo, crearli significa
abdicare alla possibilità di invertire la rotta alla disparità.
Ci sono però realtà che hanno aperto strade opposte. E che al contrario cercano di intervenire anche fuori,
coprendo i buchi delle risorse sociali, economiche e culturali che mancano all'oltre milione di minorenni in povertà nel paese. Un esempio citato nel dossier è quello dell'Istituto onnicomprensivo di Ales, in provincia di Oristano, dove la dirigente racconta: «Chi vive il disagio in famiglia, lo porta automaticamente in classe», racconta nel rapporto la dirigente Annalisa Frau: «
L’aria che respira ogni giorno a casa genera apatia, tristezza, demotivazione, ristrettezza di interessi, tendenza all’isolamento, a volte rabbia. Cresce il numero di alunni con necessità di supporto, bisogni educativi speciali, difficoltà di socializzazione, aumentano gli episodi di bullismo. Nelle nostre classi registriamo numerose situazioni di disagio, un fenomeno che riguarda sicuramente tutte le scuole ma che qui merita un’attenzione particolare perché viviamo una realtà colpita da annosi problemi di disoccupazione, isolamento,
carenza di centri culturali e ricreativi».
Che fare? «In certe situazioni non è facile scuotere i ragazzi, guidarli a una reattività che possa capovolgere il loro vissuto emotivo: a scuola cerchiamo di stimolarli continuamente, proviamo ad ampliare gli orizzonti, ma le ristrettezze dei contesti sociali e familiari non aiutano», continua Frau: «Per questo, al centro del progetto di rilancio della scuola, messo a punto con il Comitato aree interne, c’è l’idea di creare una vera e propria
scuola delle relazioni, capace di riqualificare il rapporto alunni-docenti nell’ambito dell’attività didattica, e di
aprirsi al territorio con la realizzazione di alcuni servizi (un auditorium, un teatro, una palestra) accessibili a tutta la cittadinanza. La relazionalità è uno degli aspetti su cui dobbiamo lavorare di più per fare reagire questi ragazzi».
Ed è proprio "
apertura" la parola chiave di molte delle esperienze positive citate nell'Atlante, raccolte anche attraverso la rete di 150 istituti che partecipa a "Fuoriclasse in Movimento", un'iniziativa lanciata dall'organizzazione per combattere la dispersione. Nel dossier si raccontano i risultati delle scuole aperte di Milano, dove il progetto di rendere le classi luoghi attivi, fra dibattiti, corsi, mercatini, proiezioni, è stato affidato a un ex preside, Giovanni del Bene, che racconta come «
aprirsi al territorio renda più trasparente e meno autoreferenziale la scuola».
Apertura quindi. E poi relazioni: fra le statistiche su cui l'Italia spicca internazionalmente c'è ad esempio quella dell'
ansia degli studenti legata agli esami. Molto più alta della media europea. L'ansia è legata a prove didatticamente obsolete e a un circuito familiare troppo protettivo. Di certo, l'esito è aumentare lo stress ottenendo meno risultati. È fondamentale allora - spiegano gli autori invitati a intervenire nell'Atlante - costruire emozioni solide, in classe. Diventare luoghi di
ascolto. E trovare le strade giuste per avvicinare alla materia tutti: con lavori di gruppo (ancora non diffusi trasversalmente, mostrano i dati) e occasioni di prendere voce fuori dai test.
Per cambiare emozioni a scuola, bisogna anche essere formati a farlo però. Mentre la formazione dei professori è uno degli indicatori rimasti al palo
negli ultimi anni di riforme compulsive.Per intervenire in questi tre nodi (apertura, relazioni, formazione)
servono soldi. Ma nonostante gli ultimi stanziamenti per l'Istruzione da parte del governo Renzi e l'aumento dei fondi europei, l'Italia resta in fondo all'elenco dei paesi Ue per spesa nell'educazione in percentuale al Pil.
I tagli della riforma Gelmini del 2008 (otto miliardi di euro in meno in tre anni, dal 2009 al 2011) non sono ancora stati riassorbiti, anzi. Nello stesso periodo di crisi, altri Stati aumentavano gli investimenti nella scuola, a raggiungere il 5,3 per cento del Pil. In Italia, si scendeva al 4. È difficile non vedere correlazioni con il problema dei Neet e dei ragazzi scoraggiati. Bisogna invertire la rotta.
Riportare la scuola al centro.