Formalmente il Movimento 5 Stelle rinuncia ai contributi di Stato, come nel caso dei 42 milioni dei rimborsi pubblici. Ma ha creato un sistema di introiti pulviscolari pieni di anonimi, sigle, voci opache e fittizie spesso difficili da ricostruire

L’altra volta, aprile 2013, Beppe Grillo se la cavò con un post: abbiamo raccolto 774 mila euro, ne abbiamo spesi 348 mila, il restante andrà ai terremotati dell’Emilia, saluti e ringraziamenti. A occhio, nella prossima campagna elettorale, sventolare il vessillo della casa di vetro non sarà altrettanto semplice. Troppe cose sono cambiate: l’M5S non è più un movimento di sconosciuti, ciascun ex pulcino vorrà coltivare il proprio orto per essere rieletto. Serviranno più soldi, ci saranno più rivoli, e il meccanismo di auto-finanziamento che nel frattempo è stato costruito si rivelerà per quel che è: un impasto colloso. Trasparente nei dettagli, opaco nel suo complesso. Tutto sommato e per paradosso, M5S è all’avanguardia su questo: gestione dei soldi e manipolazione del consenso sui social.

Due fronti che i Cinque stelle sono arrivati a maneggiare prima e meglio di altri, dando ad entrambi lo stesso indecifrabile marchio di vischiosa sineddoche: te ne mostro una parte, e la spaccio per il tutto. Onestà!

Per quel che riguarda il denaro, in effetti, i Cinque stelle hanno anticipato i tempi, rinunciando al finanziamento pubblico prima che venisse abolito, cioè a “42 milioni di euro” come amano ripetere ovunque. Non accedono al meccanismo che l’ha sostituito, il due per mille. Ufficialmente, tutt’oggi dicono di non volere soldi pubblici.

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Eppure ormai non è più così. Rinunciare a quegli introiti ha portato ad attivare altri meccanismi. Non è politica a costo zero. I soldi servono, anche al M5S. Ma da dove vengono, dove vanno, come sono conteggiati? Si può rispondere solo a una parte di queste domande. Le entrate sono svariate, a partire dalle sottoscrizioni per singoli eventi, ma per grandi linee: ci sono quelli raccolti dall’Associazione Rousseau; i contributi ai gruppi di Camera e Senato; gli stipendi dei parlamentari; le sottoscrizioni per singoli eventi, come la kermesse annuale; e quelli - ma quest’ultimo è più un postulato che un numero - che provengono dall’intreccio blog-rete-Casaleggio Associati, e che danno luogo a una domanda tanto frequente quanto inevasa: gli introiti per la pubblicità per i link che rimandano al sito beppegrillo.it che fine fanno? Lo chiese pure l’amata Milena Gabanelli, nel lontano 2013, ottenendo come risposta un laconico e offeso “non vanno a finanziare M5S”.

Nel complesso, chi se ne intende per aver frequentato a lungo il Movimento, parla di “polverizzazione” delle entrate. Come a dire che i soldi sono diventati una polvere di stelle, frazionata, inintercettabile. Un esempio, locale ma emblematico. Per la corsa al Campidoglio,Virginia Raggi nel 2016 ha raccolto circa 225 mila euro. Ma ne ha dichiarato la provenienza solo per un terzo, 70 mila euro, trincerandosi per il resto dietro la privacy che copre i contributi di privati sotto i 5 mila euro. Cioè non si potrà mai dire chi l’ha finanziata.

La tendenza Raggi fa scuola. L’Associazione Rousseau, il sistema di interfaccia tra eletti e militanti di cui Davide Casaleggio è presidente e amministratore unico dichiara circa 485 mila euro di fund raising, e pubblica anche la lista dei circa 16 mila donatori. Ma sono anonimi: a sfogliarla, ci si trova davanti a ben 373 surreali pagine di iniziali. Si parte da “A. A.” e si arriva a “Z.W.” . Non propriamente un inno alla trasparenza. Dal rendiconto 2016 sempre Rousseau (+ 76 mila euro) vien fuori che 30 mila euro provengono da “soggetti esteri”: 8.500 li ha messi Filippo Pittarello, responsabile comunicazione M5S al Parlamento europeo ed ex dipendente della Casaleggio Associati; gli altri 22 mila risultano come “contributi ricevuti dall’estero da altre persone fisiche”, senza ulteriori precisazioni. Si obietterà che sono 22 mila euro, mica miliardi: ecco, proprio in casi come questi, che sono svariati, sta la “polverizzazione” opaca.

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Anche nella campagna 2013, del resto, Grillo finì per dichiarare soltanto alcune spese, e per di più in modo generico (esempio: 140 mila euro per consulenze legale/tributaria, senza chiarire a chi erano andati i soldi). Fornì, soprattutto, un rendiconto parziale che, come ha sottolineato all’epoca l’associazione Casa della Legalità di Genova, non tenendo conto di entrate e uscite al livello locale per sostenere le 87 tappe dello Tsunami Tour: l’affitto e il montaggio dei palchi, l’elettricità, la Siae eccetera. Il tutto moltiplicato per quasi cento incontri. Non pochi soldi. Nel resoconto sul blog, fu specificato solo il costo del palco montato a Piazza San Giovanni a Roma: 50 mila euro. Per il resto, Grillo ringraziò chi aveva fornito gratis l’attrezzatura: ma non sempre era stata gratis. E anzi più di un neo-eletto rimase sbigottito nello scoprire - solo allora - che non avrebbe riavuto indietro i soldi prestati per mettere in piedi questa o quella serata.

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Del resto, neanche le attrezzature acquistate per gli streaming sono entrate poi a disposizione degli eletti per svolgere la comunicazione a Palazzo. Agli atti rimase invece quella cifra, 348 mila euro dei quali anche Gianroberto Casaleggio poté vantarsi nel suo intervento a Cernobbio nel 2013. Quando portò M5S ad esempio dimostrando che nel rapporto tra soldi raccolti e voti presi era stato virtuosissimo: “4 centesimi a voto” contro i “4,87 euro” di un partito tradizionale. Per concludere: «I partiti hanno ricevuto più di 100 volte la spesa sostenuta dal M5S Stelle per partecipare alle elezioni». La cifra di riferimento era però quella dimagrita, non quella totale. La versione ufficiale non arrivava a misurare la realtà che ne è rimasta fuori.

Nello stesso modo, sul sito www.tirendiconto.it campeggia il counter con i versamenti fatti dai 123 parlamentari M5S in favore dei fondi per il microcredito: «Ad oggi abbiamo restituito 24.014.613,22 euro». Quel che non c’è scritto è però che vengono ormai disattese almeno due regole volute da Grillo e Casaleggio: il tetto di tremila euro che ciascun parlamentare poteva tenere per sé; il divieto a finanziare attività politica nei territori. Di fatto, spendendo gli 8-10 mila euro di rimborsi cui ogni parlamentare ha diritto, c’è chi paga i propri collaboratori come Roberta Lombardi, e chi «eventi legati al territorio come Luigi Di Maio. Anzi, il candidato premier del M5S in tre anni ha totalizzato 108 mila euro di spese “territoriali”, per poi specificare trattarsi di “una dicitura fittizia”. Ed ecco il sistema colloso. Non è difficile ipotizzare che a breve tutte queste “diciture fittizie” potrebbero sostenere la campagna elettorale. Si pensa male?

Il fatto è che la consuetudine col Palazzo ha portato ad aggirare i proclami sulla politica a zero euro. Caso lampante: si è rinunciato a 42 milioni di euro, ma via gruppi parlamentari in una legislatura i Cinque stelle ne hanno incassati comunque 31 (3,8 alla Camera, 2,5 al Senato, media annua). Al gruppo M5S di Montecitorio si è registrata nel 2016 una impennata di spese per la comunicazione: + 375 per cento, per un totale di 522 mila euro (più della campagna elettorale 2013). È invece diminuita la quota dedicata alle consulenze per l’ufficio legislativo. Meno leggi, più video.

Sempre a Montecitorio, vi sono fatture mensili dal totale fisso di quasi 15 mila euro, indirizzate alla comunicazione/web, ma senza che vi sia modo di sapere a chi sono destinate (per legge si può omettere). E, dei 3,8 milioni di trasferimenti del 2016, ben 354 mila sono andati a finanziare la causa del no al referendum costituzionale, mentre 35 mila circa sono finiti come contributo alla festa annuale del Movimento.

D’altronde, da dove dovrebbe prendere i soldi il Movimento? Anche la Casaleggio Associati ha problemi economici. Il che rende ancor più fitto il mistero. Per il terzo anno consecutivo, infatti, la società fondata dal guru ha chiuso i conti in rosso (-48 mila), con un bilancio che nemmeno questa volta chiarisce snodi essenziali: quanto rendano gli intrecci politico-finanziari con il partito, se tra i ricavi ci sia anche la pubblicità, e se il Movimento paghi per il supporto che riceve. Buio fitto. Come del resto nel complesso sistema di siti, banner e scatole cinesi che fa del sistema M5S-Casaleggio una cyber costellazione dagli intrecci davvero sfuggenti. Ma questa è un’altra storia.

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