Nel corso di questi ultimi anni, i social network sono diventati una delle principali - e, non di rado, delle più discutibili - fonti informative dell’opinione pubblica, con un’influenza considerevole, e una capacità di dettare l’agenda e il framing che li ha resi centrali nell’ecosistema dei media. Anche se non andrebbe mai dimenticato che la televisione continua a giocare un ruolo determinante su alcune fasce di pubblico (rigorosamente al di sopra dei 35 anni), e non si dovrebbe incorrere nel rischio di vederli come dei simulacri dell’opinione pubblica, esattamente come avveniva prima coi sondaggi.
I politici nostrani vanno sui social, in alcuni casi, perché “non possono non esserci”, ma soprattutto perché rappresentano delle grancasse propagandistiche di prima mano, e i vettori della disintermediazione che bypassa e salta a piè pari il contraddittorio o le domande scomode dei mediatori. Siamo dunque entrati, senza ombra di dubbio, in una fase di “social-populismo”, che si alimenta frequentemente proprio di fake news. E la galassia della disinformazione, dei fattoidi e degli pseudo-eventi, in un mix di manipolazione ed esagerazioni da click baiting (l’“acchiappa-click”) a scopi commerciali e di business, ha sicuramente trovato nei social network un terreno assai fertile. Con i relativi problemi epistemologici (e cognitivi) riguardanti la pericolosa metamorfosi dei volti della verità e dell’oggettività (come gli studiosi Guido Gili e Giovanni Maddalena raccontano nel loro libro “Chi ha paura della post-verità?”, in uscita a inizio dicembre da Marietti 1820).
Nell’impiego dei social media - principalmente Facebook, Twitter e Instagram - la classe politica nazionale oscilla tra l’approccio-vetrina (messa in scena e autorappresentazione di sé stessa, con l’esposizione delle proprie dichiarazioni e delle proprie vittorie, o presunte tali) e l’approccio-speaker’s corner (l’interazione con i propri militanti ed elettori, in omaggio, più formale che reale, ai principi dell’orizzontalizzazione e della partecipazione degli utenti). Ma il secondo tende spesso a trasformarsi in un approccio-tribuna, dove i titolari degli account si fanno tribuni del popolo (e mitraglie spara-tweet), e il corrispettivo “popolo della rete” militante si converte in una tribù di ultrà che attiva un meccanismo confermativo delle tesi del proprio beniamino.
La presenza social di Paolo Gentiloni è di tipo molto istituzionale, specchio delle caratteristiche personali dell’uomo, e di come intende il lavoro politico, ancor più dalla postazione di palazzo Chigi, stile “forza tranquilla”.
Un utilizzo differente da quello del predecessore Matteo Renzi, i cui i social vorrebbero essere “di lotta e di governo”, in un complicatissimo slalom tra due finalità comunicative antitetiche. Silvio Berlusconi, si sa, è stato il campione della stagione della neotelevisione e della videocrazia in Italia; e, infatti, ha numeri di “seguaci” decisamente inferiori a quelli dei leader politici su piazza più giovani, e trasferisce sui social un paradigma comunicativo verticalizzato tipico del piccolo schermo (che, a ben guardare, presenta parecchie, e tutt’altro che paradossali, affinità con la logica mediale top-down del Blog del tecnopasionario Beppe Grillo).

Nell’universo (in grande cambiamento nei pesi interni) del forzaleghismo - come lo chiamava il compianto Edmondo Berselli - il soggetto iperdinamico è Matteo Salvini, il cui account ufficiale su Facebook, nel momento in cui scriviamo, conta 1.939.123 followers, segno inequivocabile, con tutte queste “divisioni corazzate”, dell’esistenza di un’egemonia populista (e sovranista) sul web e della scommessa (riuscita) dell’investimento sulla comunicazione online effettuato da questa parte politica. E a confermare la cifra dominante del social-populismo ci sono i numeri del “descamisado-guevarista” Alessandro Di Battista, che dispone di eserciti di followers superiori al “candidato premier” Luigi Di Maio, in un contesto generale di «narrazione rete-centrica» che di fatto è stata creata in Italia proprio dal Movimento 5 Stelle, come ha evidenziato il sociologo Giovanni Boccia Artieri.
Il futuro dei social privilegerà ancora maggiormente le piattaforme fondate sulle immagini rispetto al testo: prepariamoci quindi a una campagna elettorale che vedrà un ulteriore dilagare dell’approccio-vetrina, e a un crescente diluvio di post di politici “pipolizzati” che esibiscono visivamente la loro sfera intima, privata e familiare per umanizzare la propria figura; del resto, l’ultimo coup de théâtre comunicativo del pentastellato Di Battista riguarda proprio la mancata ricandidatura in Parlamento per stare con il figlio (annunciata, naturalmente, durante una diretta Facebook).
Insomma, la democrazia liberal-rappresentativa se la passa piuttosto male (ahinoi), e di certo non è stata sostituita da quella internettiana del “sentiment”.