Ecco la vera storia dell'operazione condotta nel 2011 dal colosso di Francoforte sui titoli di Stato italiani. Che fece gridare alla fuga degli investitori internazionali dal 'rischio Italia'. Ora però emerge un'altra verità: quando l'istituto annunciò di aver venduto gran parte dei Btp, in realtà li stava già ricomprando. La procura di Milano indaga

Italia affondata, scommessa finanziaria vinta. Ovvero: ecco come la più grande banca tedesca ha speculato al ribasso sui titoli di stato del nostro paese, proprio mentre Roma rischiava di precipitare in una tragedia greca. Ridotta all’osso, è questa l’accusa al centro di un’inchiesta della Procura di Milano per una possibile manipolazione del mercato, che potrebbe riscrivere una delle fasi più controverse della storia europea di questi anni. La storia di una massiccia operazione di vendita e successivo riacquisto di titoli italiani del debito pubblico, per svariati miliardi di euro, organizzata dai vertici di Deutsche Bank in assoluta segretezza, informando i mercati e i governi con un ritardo ora giudicato sospetto.

Non c’è dubbio che i giorni nei quali si svolsero i fatti, ora contestati ai manager del colosso tedesco in carica nel 2011, l’anno più nero della crisi per l’Italia, siano stati tra i più difficili e tormentati nella vita dell’Unione europea. L’esplosione del debito della Grecia aveva suscitato già dal 2009 dubbi sempre più profondi sulla stessa sopravvivenza dell’euro. Nell’ottobre 2010 la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy s’incontrano a Deauville, in Normandia, dove stringono un patto che per i sostenitori dell’Europa unita è una doccia gelata. I due leader decidono che, in caso di fallimento di uno dei paesi dell’Unione, nessun salvataggio sarebbe stato tentato se, prima, i creditori non avessero accettato di perdere gran parte dei loro investimenti. Per le nazioni più deboli, quell’accordo è una mazzata. Lo spread, cioè il divario fra i tassi d’interesse dei titoli più sicuri, come i bund tedeschi, e di quelli più rischiosi, in particolare italiani e spagnoli, si allarga sempre più. Il motivo è logico: se anche gli Stati possono fallire, un investitore è disposto a rischiare solo in cambio di rendimenti sempre più alti. Che corrispondono a interessi passivi sempre più gravosi per i paesi più indebitati, come l’Italia.

In quei mesi a Roma il problema è aggravato da una situazione politica di estrema fragilità. Nell’estate 2011 il governo di Silvio Berlusconi è costretto a preparare una drastica manovra finanziaria proprio mentre la maggioranza in parlamento va sgretolandosi. È la stessa Angela Merkel, l’11 luglio, a informare di aver telefonato al premier italiano, per chiedergli di approvare al più presto un piano di tagli della spesa pubblica e riduzione del debito. Ed è proprio in quel contesto, due settimane dopo la telefonata della cancelliera, che Deutsche Bank diffonde una notizia choc. Il 26 luglio 2011, infatti, la maggiore banca tedesca pubblica i dati aziendali del secondo trimestre. Una tabella mostra che, tra la fine del 2010 e il 30 giugno 2011, l’esposizione di Deutsche Bank al rischio Italia si è quasi azzerata: i titoli del nostro paese sono precipitati da otto miliardi di euro a soli 996 milioni. Per i mercati, il messaggio è chiaro: il colosso tedesco sta scappando dall’Italia. La sintesi perfetta la fornisce il Financial Times, che annuncia in prima pagina «il drammatico segnale di una fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell’Eurozona».

Molti retroscena di quei fatti sono stati ricostruiti da un’indagine della Procura di Trani, che di recente è stata trasferita a Milano dalla Cassazione, per motivi di competenza, su richiesta dei difensori della banca tedesca. Ora i magistrati milanesi continuano a indagare per approfondire il quadro accusatorio già delineato a Trani, che ruota attorno a una serie di date cruciali. La relazione di Deutsche Bank viene pubblicata il 26 luglio, ma, come di consueto, riguarda un periodo precedente: il secondo trimestre, dal primo aprile al 30 giugno 2011. La banca, quindi, non spiega che cosa è accaduto in quei 26 giorni di luglio, tra il momento in cui viene scattata la fotografia e la successiva pubblicazione. Ed è qui che nasce l’accusa più pesante: proprio in quei 26 giorni Deutsche Bank risulta aver ricostituito, con operazioni riservate, una parte consistente del suo portafoglio di titoli italiani. Quando annuncia la fuga dai titoli italiani, in realtà il colosso tedesco ne ha già ricomprati una grossa quota, ma non lo dice. E così, in pratica, la banca vende quando i prezzi sono ancora alti; e ricompra segretamente quando crolla tutto. Una speculazione da manuale.

Questa scommessa miliardaria viene realizzata attraverso operazioni combinate sui titoli di Stato e su un particolare tipo di derivati (chiamati Credit default swap): prodotti finanziari che permettono di assicurarsi contro i rischi di fallimento. Il risultato è che, alla fine di luglio, Deutsche Bank ha già triplicato i suoi titoli italiani, che da 996 milioni sono risaliti a tre miliardi. Può sembrare una cifra modesta rispetto agli otto miliardi del dicembre 2010, ma secondo l’accusa anche quel dato va spiegato. Proprio la soglia di tre miliardi rappresentava, per Deutsche Bank, il livello consueto, normale, di esposizione al rischio Italia. Alla fine del 2010 la cifra si era impennata soltanto per effetto dell’acquisizione di Postbank, un altro istituto tedesco, che aveva le casse piene di titoli italiani. Tornare a quota tre miliardi, dunque, per il colosso di Francoforte era un semplice riallineamento: il ritorno alla situazione standard. Cosa ben diversa da quella che fu letta come «una fuga dall’Italia».

Ad aggravare il quadro sono anche le modalità riservate delle operazioni: quattro miliardi su sette risultano venduti già nel primo trimestre 2011 (non nel secondo) e fuori dai mercati regolamentati (in gergo, “over the counter”); mentre i riacquisti si concentrano nel mese di luglio, in coincidenza con la relazione-choc. Con questi elementi, la procura di Trani era pronta a chiedere il rinvio a giudizio della banca tedesca (la capogruppo di Francoforte, non la filiale italiana), indagata come persona giuridica, prima che la Cassazione spostasse il fascicolo a Milano. Dei cinque manager sotto indagine, oggi nessuno siede più nel consiglio di gestione dell’istituto. L’allora presidente, lo svizzero Joseph Ackermann, e il suo successore indo-britannico Anshu Jain sono stati contestati anche in Germania: «Non so se ridere o arrabbiarmi per il fatto che questa banca, che ha fatto della speculazione un modello di attività, ora si dichiari vittima degli speculatori», ha dichiarato un anno fa l’allora vice-cancelliere Sigmar Gabriel. Ora al vertice di Deutsche Bank c’è il banchiere britannico John Cryan, estraneo all’indagine. E a favore della difesa gioca anche la difficoltà di ricostruire l’intero quadro. Certamente alla fine di luglio 2011 lo spread tra Italia e Germania s’infiammò, superando i 300 punti e raggiungendo quota 350 il primo agosto. Ma una dinamica simile colpì anche la Spagna, che subì un taglio inferiore: i titoli iberici posseduti da Deutsche Bank scesero da 2,1 miliardi a 722 milioni.

Comunque vadano i risultati processuali, che dovranno essere confermati o smentiti dai giudici, le operazioni di Deutsche Bank ricostruite dall’accusa potrebbero riaprire le polemiche politiche sulle grandi banche e sulle regole europee. Nel luglio 2011, uno dei commenti più duri arrivò da Romano Prodi, ex capo del governo italiano ed ex presidente della Commissione europea, che si dichiarò «sconvolto» da quella che definì «incoscienza»: «È la fine di ogni legame di solidarietà in Europa».