"Nel 2011 un boss intercettato al telefono disse che voleva spararmi in bocca perché avevo scritto nei miei articoli dei suoi affari. Ora il tribunale di Bologna gli ha dato 26 anni in primo grado. E ha riconosciuto che nelle regioni settentrionali la mafia è ormai radicata". Parla il nostro cronista

Oltre la linea Gotica c'è una mafia silente. Per niente rumorosa, accorta a non apparire, abile nel penetrare nei tessuti sani della società. E se invece questi tessuti non fossero così sani? Il sospetto è che nei territori del Nord ci sia una forte richiesta di mafia, dei suoi metodi e strumenti. La chiamano voglia di clan.

Imprenditori, professionisti, politici, servitori dello Stato, che nati e cresciuti nelle regioni ricche hanno scelto di stare dalla parte del crimine. Indizi e sentenze recenti, degli ultimi anni, hanno trasformato il dubbio in certezza.

Spesso anche nel minacciare l'accento è misto: nel mio caso quando boss e faccendiere, progettavano di eliminarmi, il piemontese si mescolava all'accento calabrese. La telefonata intercettata risale al 2011. E non smetterò mai di ringraziare quegli uomini e quelle donne della guardia di finanza che hanno ascoltato e segnalato d'urgenza il fatto alla procura antimafia di Bologna.

Da lì il procuratore dell'epoca Roberto Alfonso, insieme al pm Francesco Caleca che seguiva l'inchiesta sul gruppo Femia, chiese alla prefettura di Modena di mettermi sotto scorta. Così iniziò una vita diversamente libera. Un'esistenza vissuta nell'equilibrio tra fragilità, insicurezze, paure, ma anche tra l'amore di chi in questi quasi sei anni mi è stato vicino, sopportando un vita di certo non facile. Poi, ieri, a distanza di così tanto tempo,il tribunale di Bologna ha riconosciuto l’esistenza di un clan mafioso che in Emilia aveva messo radici. L'esistenza di quella cosca che voleva bloccare l'informazione locale immaginando persino di usare il piombo per raggiungere l'obiettivo.
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Il capo Nicola Femia e i suoi figli, Nicolas e Guendalina, sono stati condannati a pene pesanti: Nicola detto "Rocco" a 26 anni, Nicolas a 15 e la figlia a 10. E per la prima volta viene riconosciuta l’intimidazione all’informazione. Per questo i giudici hanno stabilito che il clan Femia dovrà risarcire il giornalista che firma questo articolo e l’Ordine dei giornalisti. Risarcimento per le minacce ricevute. «O la smette o gli sparo in bocca», diceva il faccendiere Guido Torello (condannato a 9 anni) al boss Femia che si lamentava dei ripetuti articoli che avevo pubblicato sulla Gazzetta di Modena.

Risarcimento per aver minacciato la libertà di stampa, non solo la mia vita. Anche per questo il verdetto di primo grado del processo "Black Monkey" è un punto di rottura nella storia dell’antimafia del Paese. Che serve a tutta la categoria. E spero possa far sentire meno soli quei colleghi che senza scorta e in trincea scrivono dei poteri criminali nelle province d'Italia. Lo spero, nonostante il dibattimento che si è concluso ieri a Bologna si sia svolto nel silenzio. Sebbene la mafia come tema di dibattito pubblico non abbia più l’appeal di un tempo.

Alla fine questa sentenza rappresenta uno spartiacque. Perché da ora in avanti le organizzazioni mafiose che pensavano di farla franca nei territori del Centro-Nord dovranno rassegnarsi a essere giudicate con la stessa severità che gli viene riservata dai tribunali del Sud, allenati da decenni di violenza e lotta antimafia.

In questi anni vissuti sotto protezione ho maturato una convinzione: il mestiere di informare è un servizio. Un servizio per i lettori, che sono cittadini. A loro proviamo a dare gli strumenti per leggere ciò che accade nella comunità in cui vivono. Un’informazione corretta, insomma, che sia un argine al veleno delle forze criminali.

Sono trascorsi cinque anni e mezzo dal 22 dicembre 2011, da quando, cioè, la Questura di Modena mi comunicò che da quel giorno avrei vissuto sotto scorta. Non avevo la minima idea di cosa significasse. Non sapevo esattamente quali cambiamenti avrebbe portato nella mia vita. Avevo 29 anni. Le lacrime della mia compagna, il divieto di informare persino i parenti stretti, i primi due agenti che mi aspettavano sotto casa: mi istruirono in fretta su ciò che potevo fare e soprattutto su cosa non avrei più potuto fare da quel momento in poi.

'ndrangheta
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22/2/2017
Ero come un bambino che imparava a muovere i primi passi in una nuova vita. Una vita a metà. I momenti di intimità familiare sarebbero diventati una rarità di cui godere appieno. Non posso però neanche scordare le voci di chi bollava il tutto come una strumentalizzazione per procurarmi notorietà e attenzione. Non ho mai risposto. Non mi ha mai appassionato la ferocia del dibattito social. Preferisco scrivere, raccontare, indagare. Guardare negli occhi, scrutare ciò che a prima vista non si vede, entrare nelle storie. Prendermi il tempo per interpretare la verità. Che cammina sempre piano. C’è voluto tempo anche per la sentenza del processo Black Monkey, ma è un verdetto storico. Merito di una procura guidata all’epoca da Roberto Alfonso (oggi procuratore generale di Milano) e di un pm, Francesco Caleca, che ha descritto alla perfezione la mafia moderna senza alcun protagonismo.
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21/2/2017

Ma un ringraziamento speciale va a chi ogni settimana, sacrificando il proprio tempo, ha riempito l’aula 11 del tribunale: studenti, tantissimi; ai loro docenti; agli amici; alle associazioni che si sono costituite parte civile, da Libera a Sos Impresa; per finire agli enti locali che hanno ottenuto il risarcimento per i danni di un clan che ha ucciso un pezzo di economia. Perché questo fanno le mafie 2.0, ammazzano imprese sane e uccidono la buona economia.