Non si può rovesciare la difesa della vita nell'obbligo di conservarla quando non lo è

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Nella cronaca tutt’altro che esaltante di questi giorni, equamente divisa tra le contorsioni dei capicorrente del Pd e i dietrofront dei 5stelle sullo stadio per la Maggica, un evento inatteso ha squarciato la nostra soglia di attenzione. La vicenda di Fabo, costretto a inseguire una morte proibita in Svizzera, ci pone tutti di fronte a quello che Lacan chiamava il Reale.

Qualcosa che non si può simboleggiare, che eccede i circuiti usurati della rappresentazione. Anche se sulle prime pagine di tutti i giornali, si tratta di qualcosa che sfugge al gergo dei dibattiti e delle opinioni. Benché interpelli la politica e la giustizia, a essere in questione, nella scelta estrema di Fabo, è il rapporto diretto di ogni individuo con propria vita – e perciò anche con la propria morte.
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Il coinvolgimento immediato di ciascuno di noi nei confronti di questa vicenda è il rovescio della stanchezza per una politica chiusa nei propri riti, incapace di dare risposte sui contenuti della nostra esistenza. Sulla catena che ci vincola al nostro corpo – alla nascita, alla giovinezza, alla vecchiaia, alla malattia, alla morte. È ormai evidente che, se perde di vista il rapporto con tali questioni, la politica smarrisce ogni motivo di essere. Parlando di “biopolitica” e di “tanatopolitica” – di politica della vita e di politica della morte – Michel Foucault ha colto in anticipo questo passaggio che taglia la storia moderna.

Alla lunga stagione in cui il potere sovrano faceva morire e lasciava vivere, è subentrato un regime, appunto biopolitico, che fa vivere il grosso della popolazione e lascia morire coloro che non ce la fanno. Quel che accade a quelli che sono costretti a intraprendere un difficile viaggio per mettere fine alla propria esistenza fa pensare che siamo ormai entrati in una fase, ancora successiva, in cui il potere impone di vivere senza consentire di morire.
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Naturalmente i casi di cui si è parlato in questi anni – come quelli di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro e, adesso, di Fabiano Antoniani – sono molto diversi tra loro. Ogni vicenda di questo tipo è sempre assolutamente singolare e così va trattata. C’è differenza – come sostiene Beppino Englaro – tra la sospensione dell’accanimento terapeutico per un corpo in stato vegetativo e la volontà esplicita di mettere fine a una vita insopportabile. Ma una domanda di fondo lega comunque queste tragiche esperienze.

È l’interrogativo su chi possieda le chiavi per chiudere l’ultima porta alle nostre spalle. Se affidarle alla libera opzione dei medici rischia di comportare gravi conseguenze – come nel caso, recente, di ospedali in cui la prevalenza degli obiettori di coscienza lede la libertà di chi richiede il loro intervento – lasciarla alla magistratura apre problemi non minori. Quale giudice può esercitare il diritto di sottrarre a qualcuno la scelta più rilevante di tutte – quella di stabilire il limite oltre il quale si riesce a conferire significato e valore alla propria esistenza? Nel caso del nazismo uno Stato europeo, nel cuore del Novecento, si è arrogato la facoltà di decidere quando una vita non fosse più degna di essere vissuta, producendo una catastrofe i cui effetti non sono ancora estinti. In quel caso furono medici e magistrati a fare il lavoro sporco, al servizio di una ideologia omicidiaria in cui la politica della morte ha toccato forse il suo culmine.

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Illustrazione di Giuseppe Fadda
Oggi, per fortuna, siamo lontani da quei tempi. E la difesa della sacralità della vita risponde anche all’esigenza di prendere le distanze da quegli orrori. Ma non si può rovesciare la sacrosanta difesa della vita nell’obbligo di conservarla anche quando nulla di essa è più considerabile tale. Su questo terreno, a tutti gli effetti decisivo, il nostro paese è assai indietro rispetto agli altri. Il fatto che chi non riesce più a tollerare di vivere una condizione fisica e spirituale per lui insostenibile debba fuggire all’estero come un ricercato, è un prezzo troppo alto che paghiamo non a esigenze universali di giustizia, ma alla pigrizia di una classe politica incapace di assumersi responsabilità. A questo proposito va ricordato che l’Italia è una delle poche democrazie occidentali che non è ancora riuscita ad approvare due leggi fondamentali come quella sul testamento biologico e quella di istituzione del reato di tortura.

Naturalmente si tratta di questioni del tutto diverse, ma che sembrano toccarsi in un punto terribile. Non è anche, sopportare qualcosa di insopportabile come una vita senza contenuto, una sorta di tortura? Come è noto, i torturatori non vogliono la morte delle loro vittime, che sottrarrebbe l’oggetto del loro esercizio. Loro intenzione è quella di trattenere in vita il torturato per il maggior tempo possibile. Per prolungare la tortura, essi gli impediscono letteralmente di morire. Ritardano la morte fino all’ultimo momento utile. Si oppongono, certo, alla libertà della vita, ma anche alla libertà di una morte invocata dal torturato come ciò che soltanto può mettere fine alle sue sofferenze.

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La grande letteratura, da Dante a Kafka, si è soffermata sul tormento supremo della impossibilità di morire. Nulla è più doloroso che stare in una zona di indifferenza tra la vita e la morte. In una vita che non è più tale e in una morte ancora vivente. Cosa altro è l’inferno se non questo? Se non l’eternità di un tormento senza fine? Certo, non è facile entrare nell’esperienza dell’estremo. Come non esiste un criterio per fissare il punto aldilà del quale il dolore di vivere diventa insostenibile. Ciò dipende da una serie di variabili che riguardano la sensibilità di ciascuno. Questa è la barriera davanti alla quale ogni legge di tipo coattivo batte senza rimedio.

In ambito bioetico, soprattutto per quanto riguarda la scelta finale, la legge non può agire che ritraendosi, facendo spazio alla volontà individuale. Ciò non ha nulla a che vedere – come sostengono coloro che si oppongono al testamento biologico – con un eccesso di individualismo. In tali casi in questione non è l’interesse individuale, ma il momento decisivo in cui il singolo è nudo di fronte a se stesso. Quando il soggetto non è più in grado di esercitare la propria volontà perché entrato in uno stato di vita vegetativo – come nel caso di Eluana Englaro – allora la questione di chi debba decidere per lui è aperta e la scelta delicata. Ma quando egli ha la forza, e il coraggio, di farlo, quale altra volontà, individuale o collettiva, può privare chi soffre della possibilità di metter fine alla propria sofferenza?