Il tema è caldo e ne parlano tutti. Perché se il populismo si rivolge alle pance non c'è argomento migliore della promessa di un reddito
Ormai ne parlano tutti. Da Sinistra italiana all’estrema destra, ognuno ha la sua ricetta contro la povertà. Con le elezioni alle porte, 4,6 milioni di italiani in povertà assoluta e circa 10 in povertà relativa, il tema diventa pane per la campagna elettorale. Così il governo si affretta ad approvare con un testo blindato la legge delega sulla povertà, che stanzia circa 1,6 miliardi di euro per aiutare i cittadini più in difficoltà, anche se la platea dei beneficiari verrà stabilità nei decreti attuativi. E il dossier del centro studi del Senato calcola che se il beneficio economico fosse spalmato sul numero dei poveri assoluti ognuno intascherebbe solo 20 euro al mese. La montagna ha partorito il topolino e per questo i 5 Stelle al Senato promettono di astenersi al momento del voto.
Già, nel 1992 una risoluzione europea stabilì che ogni cittadino doveva poter contare su risorse sufficienti «a garantire la dignità umana», individuando una serie di criteri volti al reinserimento sociale delle persone più in difficoltà. Il primo a recepire e sperimentare un
reddito minimo di inserimento (Rmi) fu Romano Prodi nel 1998, ma la misura fu abolita dal successivo governo di centrodestra. Dopodiché venne l’epoca della social card, delle pensioni minime a 500 euro e persino dei consigli, come quello dispensato alle giovani precarie di «sposare un uomo ricco» (copyright Silvio Berlusconi) .
Poi è arrivata la crisi economica ad attanagliare intere fasce di popolazione, sempre più ai margini. Tra propaganda e prospettiva, i partiti provano a parlare alle fasce più basse della società, alcuni alimentando un vero e proprio scontro tra disgraziati.
Così se il Pd ha fretta di approvare la legge delega sulla povertà, CasaPound sta raccogliendo le firme per una proposta di legge popolare per il “reddito di natalità”, ovvero 500 euro per ogni bambino nato fino al compimento dei 18 anni, da finanziare con i soldi oggi destinati all’accoglienza dei migranti; il Movimento 5 stelle propone da sempre un reddito di cittadinanza e la Rete dei Numeri Pari, che raccoglie 105 organizzazioni territoriali con l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze, ha già sottoposto ai parlamentari di tutti gli schieramenti una proposta per il reddito minimo di dignità.
Anche all’estero il tema è caldo. In Francia l’outsider della sinistra socialista Benoit Hamon ha vinto a sorpresa le primarie per l’Eliseo proponendo una revisione delle misure di contrasto alla povertà; e in Finlandia dal primo gennaio è iniziata la sperimentazione di un reddito di cittadinanza di 560 euro erogato per due anni a duemila cittadini disoccupati scelti a caso, che verrà corrisposto anche in presenza di reddito. Caso unico in Europa di reddito di cittadinanza puro. Più ampio persino da quello proposto dai grillini. La senatrice del Movimento Nunzia Catalfo, che segue questi temi spiega che il loro è un modello temperato. Il reddito minimo è individuato dalla soglia Eurostat, in base alla quale non bisognerebbe mai scendere al di sotto del 60 per cento del reddito mediano equivalente, pari a 9.000 euro l’anno, circa 780 euro al mese. In questo contesto la proposta grillina prevede un’integrazione al reddito per chi è sotto quella soglia e nessun vantaggio per chi la supera. Una misura che a conti fatti costerebbe 15 miliardi di euro.
Ma mentre nei Palazzi della politica si parla, le sperimentazioni sono già in atto in molte regioni italiane, dove sotto la parola reddito si combinano un mix di servizi ed erogazioni in denaro rivolti ai cittadini in difficoltà. Così in Lombardia, dove c’è un assessore con la delega al “Reddito di autonomia”, circa 12 mila bambini hanno accesso gratis all’asilo nido e alle mamme in dolce attesa è erogato un buono famiglia. Ma, spiega l’assessore leghista Francesca Brianza , «le misure sono rivolte a chi a un Isee inferiore a 20 mila euro, così ci occupiamo anche di chi rischia di scivolare nella povertà, però chiediamo una corresponsabilità dei soggetti che beneficiano dei nostri bonus».
Perché una contropartita c’è sempre. In tutte le proposte e sperimentazioni in atto, chi beneficia di un voucher, di un assegno o di un servizio, deve seguire un programma di reinserimento lavorativo o sociale, nel caso di disabili o minori in povertà, concordato con il comune e i servizi sociali, pena l’interruzione dell’erogazione.
Ma è proprio sul coinvolgimento degli enti locali che rischiano di saltare le buone intenzioni. A lanciare l’allarme è stato l’Anci, la sigla che riunisce i comuni italiani, che al Senato ha ricordato come i comuni che dovranno farsi carico della gestione delle pratiche e dei piani di reinserimento siano gli stessi che in questi anni hanno subito il blocco delle assunzioni, i vincoli del patto di stabilità e la riduzione degli stanziamenti destinati al sostegno degli interventi sociali. La vera sfida non è quindi tanto l’erogazione dei denari, ma «abituare l’amministrazione ad avere un ruolo pro-attivo nei confronti dei cittadini, coinvolgendo i servizi sociali», spiega Elisabetta Gualmini, assessore al Welfare della Regione Emilia Romagna, dove è stato approvato il reddito di solidarietà di 400 euro al mese per circa 80 mila cittadini con un Isee fino a tremila euro. Sulla stessa linea, ma con stanziamenti inferiori, si muove anche la regione Puglia con il Red, il “reddito di dignità”, che a pieno regime dovrebbe aiutare 20 mila famiglie, privilegiando quelle con minori e disabili non autosufficienti. Gli economisti lo chiamerebbero “universalismo selettivo”, in parole semplici una guerra tra il povero e il più povero. Così anche la misura di prossima approvazione del governo dovrà individuare una platea ristretta di beneficiari, affinché la misura abbia economicamente un senso.
«Con la povertà aumentano le diseguaglianze e trovano terra fertile i populismi», ragiona Giuseppe De Marzo di Libera e tra i coordinatori della Rete dei Numeri Pari. Tra le sue iniziative la Rete propone una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio, vincolandolo al «rispetto dei diritti fondamentali delle persone» e chiedendo all’Europa che «la spesa per il sociale esca dai vincoli di bilancio dell’Unione».
Se il populismo parla alle pance, quale migliore argomento della promessa di un reddito? Soprattutto se 10 milioni di italiani quelle pance le hanno vuote e le elezioni sono alle porte.