Il Pulitzer per i Panama Papers non  è la meta. Anzi, ci pone una domanda: come fare meglio L’Espresso?

Il titolo qui sopra è una citazione di Joseph Pulitzer, il giornalista ed editore ungherese, sbarcato negli Stati Uniti a fine ’800, alla cui memoria è dedicato il più celebre premio del mondo legato all’informazione. Il 10 aprile scorso il Pulitzer è stato assegnato all’inchiesta “Panama Papers” dell’International Consortium of Investigative Journalists, di cui L’Espresso è partner esclusivo per l’Italia. Per la prima volta nella storia vengono scelti reporter non americani. Il premio va a un’inchiesta internazionale che segna una svolta nel giornalismo e nel suo modo di raccontare il mondo che cambia. I Panama Papers - come ci spiegano gli autori nell’articolo qui a fianco - sono un lavoro di ricostruzione fatto da cronisti, in assenza di qualunque azione preventiva della magistratura.

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Sono serviti mesi e mesi di verifiche su oltre 11 milioni di documenti riservati su società offshore create dallo studio Mossack Fonseca in venti paradisi fiscali del pianeta. È dunque un’indagine giornalistica e non giudiziaria, che una volta pubblicata sull’Espresso e sui giornali partner del consorzio Icij ha sconvolto il mondo della finanza offshore e ha portato all’apertura di 150 indagini penali in 79 Stati del pianeta, dall’Europa (anche in Italia diverse procure hanno avviato rogatorie internazionali) fino alle Americhe (nord, centro e sud), dall’Asia all’Africa, dall’Australia alla Nuova Zelanda. In più, a seguito dell’inchiesta, molti governi hanno stretto accordi contro l’evasione fiscale internazionale, hanno cominciato a incrociare i dati per combattere le infiltrazioni criminali nei grandi business. Con il ministro delle finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble, che ha annunciato il varo della “legge Panama”, norma che obbligherà i tedeschi a rivelare i legami, anche indiretti, con le offshore. E potremmo continuare.

Ma ciò che interessa all’Espresso, all’indomani del Pulitzer, non è certo celebrarsi. Ma al contrario domandarsi: cosa dobbiamo fare di più e meglio per essere all’altezza di un premio così? Quali sono i difetti, gli errori, i canoni superati di giornalismo che non possiamo perpetuare, ma abbiamo il dovere - adesso più di prima - di mutare in un modello di informazione moderna, capace di fare luce attraverso inchieste giornalistiche là dove il potere politico ed economico globale non vorrebbe che qualcuno mettesse il naso, nel solo interesse dei cittadini? Come possiamo essere davvero un giornale capace di rendere l’opinione pubblica «bene informata» per restare nel solco spirituale (e professionale) segnato da Joseph Pulitzer? Pur con le difficoltà e i rischi che un lavoro di questo tipo inevitabilmente comporta?

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Pensiamo che L’Espresso abbia il dovere, da oggi, di provare a vincere questa scommessa. Raccontare i fatti, senza guardare in faccia nessuno, ma con la serietà della verifica e dell’equidistanza, è l’unica strada possibile per vincere le sfide complesse che toccano i giornali e l’informazione. Una strada accidentata, che molti vorrebbero inquinare con il tifo politico, facendo scivolare ogni notizia lungo il pericoloso crinale dell’interesse di parte. In un momento in cui il fattore “tempo” rende l’informazione più veloce, istantanea, ma a volte troppo. Il senso di democrazia apparente che ci dà la partecipazione di massa agli eventi, la nostra vita in diretta, sempre lì su tutto e in ogni luogo, è straordinaria ma ha un rovescio: la fretta di valutare, l’impossibilità di studiare a fondo, il pericolo di vedere solo ciò che qualcuno vuole farci vedere. Passione, professionalità, studio meticoloso, ricerca di notizie non solo inedite ma “pericolose” per i poteri, quindi dolosamente occultate, così come il tentativo di andare sempre a fondo, di rispondere a tutte le domande che ci sorgono mentre raccontiamo un fatto, soprattutto le domande scomode, quelle cioè che potrebbero mettere in discussione l’inchiesta stessa, smontarla, è il nostro dovere. E se a volte non è stato fatto, o è stato fatto parzialmente, il Pulitzer ci obbliga a scusarci con i lettori e ricominciare da capo, raccontando ancora di più e senza paura delle critiche. Perché se fai quello che devi fare, non devi aver paura di niente. Mentre lasciamo ad altri il giornalismo emotivo, la psico-informazione fatta per “scaldare” il cittadino contro qualcosa. Il giornalismo delle verità assolute e del “so io come andrà a finire”. Noi non lo sappiamo. Ed è per questo che continuiamo a cercare.

Ci siamo chiesti come provare a fare da subito questo sforzo. E lo facciamo pubblicando in copertina un’inchiesta internazionale firmata da due giornalisti dell’Espresso che fanno parte del pool Icij, premiato al Pulitzer per i Panama Papers. Un’inchiesta che, dopo la prima puntata sul Tap, il gasdotto che ha diviso l’Italia per il suo approdo sulla costa pugliese, ripercorre i 4 mila chilometri di condotte per raccontare, per la prima volta e in esclusiva, quali sono le società che ci stanno dietro e a chi afferiscono. Con non poche sorprese: dal coinvolgimento diretto della famiglia Erdogan agli interessi di Putin e dei suoi oligarchi su un’opera che, a parole, doveva costituire proprio una garanzia di maggiore indipendenza dalla Russia. L’inchiesta non nasce dall’idea di essere pro o contro quell’opera. Ma dall’idea di Joseph Pulitzer: solo conoscendo ogni dettaglio, il più possibile approfondito, su un fatto, l’opinione pubblica può formare liberamente un’opinione. E siccome su quest’opera ne abbiamo sentite tante (minacce comprese), ma non abbiamo sentito nessuno raccontare la vera storia, dall’inizio alla fine, lo proviamo a fare noi.

Twitter @Tommasocerno e @VicinanzaL