
Viene allora da chiedere ad Olivier Roy, autorevole esperto di islamismo e fondamentalismo religioso, come mai il terrorista di Manchester abbia scelto l’azione suicida, e come mai in maniera analoga i terroristi di Londra non abbiano nemmeno contemplato un tentativo di fuga nei loro piani di sangue due settimane più tardi. [[ge:espresso:attualita:1.302336:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2017/05/23/news/attentato-a-manchester-la-polizia-attacco-kamikaze-1.302336]]«È un elemento che accomuna quasi tutti gli atti di terrorismo riconducibili ad Al Qaeda o allo Stato islamico», spiega Roy, precisando: «Salman Abedi avrebbe potuto benissimo mettere la bomba al concerto di Ariana Grande e dileguarsi, causando il medesimo numero di morti. Lo stesso vale per il London Bridge, un classico caso di suicidio attraverso la polizia».
Perché allora questo paradosso? Costoro non si proclamano portatori della lettera dell’Islam?
«Il suicidio è un aspetto decisivo se si vuole comprendere il terrorismo islamista degli ultimi vent’anni, come spiego nel mio ultimo libro il cui titolo originale è per l’appunto “Il jihad e la morte” (appena tradotto in Italia da Feltrinelli come “Generazione Isis”, ndr). Non è il prezzo da pagare per compiere l’atto di guerra, un mezzo per rendere l’attacco più efficace, ma parte integrante del progetto del terrorista che brama la propria morte come quella delle sue vittime. Lo riassume bene la citazione che è stata attribuita a Bin Laden: noi amiamo la morte come voi amate la vita. Per quanto riguarda la contraddizione, che lei giustamente solleva, fra quanto predicato sul suicidio dalla più parte del corpus giuridico islamico anche più oltranzista e l’operato dei terroristi, io ho trovato una sola soluzione intellettuale.
Per conciliare il suicidio e la fede religiosa dei jihadisti - i quali, non c’è dubbio, sono convinti di andare in paradiso compiendo l’atto - serve citare l’attesa dell’apocalisse. Per loro siamo alla fine dei tempi, e alla fine dei tempi saltano tutte le regole. È un aspetto che unisce lo Stato islamico nella sua dimensione locale in Medio Oriente e il jihad globale dei terroristi. Il primo insegue il progetto teologicamente impossibile di ristabilire il Califfato di Maometto, laddove il profeta non può tornare e sarebbe eretico dal punto di vista dello stesso Islam pensare che ne arrivi un altro dopo di lui. I secondi fanno appello a Daesh sacrificando nelle proprie azioni suicide qualsiasi logica strategico-militare, il calcolo cinico e non metafisico che guidava invece i kamikaze giapponesi nella seconda guerra mondiale o quelli del Pkk curdo e altre organizzazioni, e ogni coerenza religiosa. La resa dei conti finale di Dabiq, la località siriana che dà il nome alla rivista di Daesh e in cui è previsto lo scontro dell’Apocalisse, svuota di significato ogni progetto o regola. È inutile razionalizzare, cercare di spiegare perché Daesh scelga certi obiettivi piuttosto che altri. Daesh è contro tutto e a favore di niente, non crede neppure nella sua distopia».
Nel suo libro parla di un’iper-secolarizzazione della società occidentale che mette all’angolo lo spirituale consegnandolo all’estremismo.
«Esatto. Partirei dall’esempio del processo con cui gli aeroporti di Parigi selezionano il personale che si occupa di caricare e scaricare i bagagli dalle stive degli aerei. La metà dei candidati sono musulmani, visto che si tratta di un mestiere non specializzato in zone ad alta densità di migranti. Nei profili dei candidati un’intera pagina è dedicata alle pratiche religiose. Il soggetto va in moschea? Digiuna per il Ramadan? Beve alcol? La logica di fondo è che più sei religioso meno è prudente assumerti, perché rischi di diventare un terrorista. In Europa i religiosi sono considerati nel migliore dei casi “strani”, nel peggiore addirittura “fanatici”. Ecco che allora si attivano i meccanismi che chiamo di de-socializzazione e de-culturazione della religione: essa viene praticata sempre più al di fuori del suo naturale contesto umano. Mentre la maggioranza riempie il vuoto di spiritualità affidandosi a surrogati come lo yoga, la meditazione e pratiche di cosiddetto “well-being”, chi rifiuta queste forme di “religione addomesticata” cade più facilmente preda della marginalizzazione e dell’estremismo. Serve risocializzare la religione, promuovere l’incontro nei luoghi di culto dove si pratica, ma la reazione al terrorismo islamista è piuttosto quella di isolarla ancora di più. Il fondamentalismo non si traduce necessariamente in violenza, ma fornisce una narrativa per i radicali».
Perché così tanti “radicali” cadono nella trappola dell’Islam fondamentalista piuttosto che in quella di, chessò, un veganesimo militante?
«Perché è quanto offre un impoverito mercato globale di ideologie estremiste. Nulla come la narrativa di Daesh permette di esprimere una tale volontà di distruzione e auto-eliminazione, neppure ormai l’estremismo politico gauchista. La figura del martire esiste, anche se più passivo, nell’ebraismo e nel cristianesimo (di nuovo, purché non sia suicida) ma oggi non esistono frange che eguaglino il nichilismo dell’Isis. Ecco allora che il venticinque per cento dei jihadisti dello Stato islamico sono convertiti: conviene “islamizzare” il proprio radicalismo per poterlo esprimere al meglio. Il sessanta per cento dei jihadisti europei sono invece seconde generazioni di immigrati musulmani in Europa: perdono il legame con le proprie origini ma faticano ad integrarsi in Occidente, cadendo nel vuoto della de-culturazione. È il caso di Salman Abedi, l’attentatore di Manchester che è cresciuto in Inghilterra da genitori libici fuggiti dal regime di Gheddafi in Libia. Solo dopo questi due gruppi ci sono le prime e le terze generazioni, rispettivamente meglio socializzate nel paese di provenienza e in quello di approdo. Il caso del suicidio è solo un esempio di come il terrorismo islamista violi i cardini della giurisdizione islamica più consolidata.
Secondo i miei studi, oltre il settanta per cento delle reclute dello Stato islamico non conosce neppure le basi del proprio credo religioso. Al netto dei combattenti provenienti dal mondo arabo, che ricevono un minimo di educazione religiosa, questo significa che quasi tutti gli adepti occidentali non sanno nulla di cosa significhi essere musulmani. Che senso ha allora arrovellarsi sulla radicalizzazione dell’Islam? È più utile concentrarsi sull’islamizzazione del radicalismo».