Gli attentati. Il panico. E la psicosi. Così la nostra vita si restringe e la libertà ?si riduce, la democrazia si ammala È la vitalità sotterranea della società aperta che viene colpita in un concerto, su un ponte, davanti a un mercato, in una scuola

Uno zainetto. Lì dentro sta tutto il concentrato di paura che pesa sull’epoca, un’idea fisica e concreta di terrore trasportabile, fabbricabile, maneggiabile, di uso comune e di pronto impiego, semplice nella confezione e nell’utilizzo, quindi perfettamente camuffabile della banalità del nostro costume collettivo, replicabile all’infinito e dunque inafferrabile perché nomade, individuale e uguale a tutti gli altri: uno zainetto, appunto. Magari innocente come a Torino, e tuttavia sufficiente a trasformare un’immagine casuale in una possibile icona del terrore che ci insegue, ci accompagna e come in questo caso addirittura ci precede, come una profezia di sgomento.

La paura è riuscita a penetrare fin qui, nell’abitudine più neutra, nel costume più usuale e più diffuso, nella norma giovanile di un oggetto che nel suo spazio ridotto trasporta autonomia, autosufficienza, indipendenza, garanzia. Rovesciato, il tutto, nel suo contrario, se oggi ormai diffidiamo di noi stessi, di come ci vestiamo, di cosa potremmo nascondere sotto la felpa, di quel che ci portiamo sulle spalle. Se l’oggetto evoca la sostanza del male anche quando non c’è. Perché quando la paura si nasconde nella normalità e può esplodere dal profondo dell’ordinario, allora si ingigantisce, perché è come se fosse dovunque, e ci fosse sempre.

Prendiamo l’immaginario di un ragazzo di sedici anni. La sua libertà è fatta di uscite, social network e chat, amici, serate in gruppo, musica e concerti, studio, sport, per qualcuno volontariato, preghiera, magari persino un poco di politica. Dopo il Bataclan, dopo Nizza e Londra, dopo l’Arena di Manchester e persino dopo Torino, dopo il blue whale, quell’universo da frequentare, vivere e sperimentare si restringe, la libertà si riduce, l’autonomia si contrae. Si perde l’ingenuità dei riti, la spontaneità dei comportamenti, l’affidamento libero a se stessi e agli altri. Bisogna invece calcolare, prevedere, stare in guardia, spesso rinunciare. La libertà diventa vigilata.
Le idee
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Tuttavia lo specifico di questa paura non è nel riflesso individuale, e nella riduzione d’autonomia personale che comporta, ma è nell’attacco al costume collettivo, nella sua modificazione. Il tempo libero occidentale che viene fatto esplodere in Francia e in Gran Bretagna è infatti inconsapevole parte della nostra organizzazione civile, della divisione tra il lavoro e il resto della vita, dunque della costruzione di sé dentro una rete sociale di relazioni, di incontri, di riconoscimenti reciproci da cui nascono legami amicali, professionali, culturali, affettivi. Tutto questo accade perché sta dentro una regola, che è semplicemente il valore d’uso quotidiano della democrazia nella sua materialità di consumo, come un sistema sperimentato e liberamente accettato di garanzie che ci scambiamo giorno dopo giorno l’un l’altro.

Ingrandimento
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È questa vitalità sotterranea della democrazia che viene attaccata in un concerto, su un ponte davanti al mercato, in una sala da ballo, in una scuola. Un modo di vivere, dunque, un sistema di combinazioni tra destini, scelte, opportunità, bisogni, aspettative e realizzazioni. Regolato - anche se a noi sembra un flusso naturale, spontaneo - da un patto culturale, politico, di società, che disciplina le libertà individuali nella subordinazione alla legge comune e all’autorità dello Stato, che dovrebbe garantire il rispetto del diritto e dei diritti, per tutti.
Se non comprendiamo che è questa la ricchezza che viene attaccata, allora non abbiamo niente da difendere, siamo puro sgomento, ci riduciamo a bersagli di un gioco sanguinoso ma irrazionale, perché fuori non soltanto dal nostro sistema di calcolo del rapporto tra costi e benefici, ma da qualsiasi motivazione, dunque da ogni fanatica strategia. Neghiamo ogni autonomia politico-culturale al terrorismo riducendolo a follia esplosiva e omicida, dunque annulliamo le sue responsabilità, disperdendo il significato delle sue azioni, il loro “senso” profondo.

E invece nel momento legittimo della paura, bisogna saperla leggere, scomporla nei suoi multipli, arrivare alla radice di questa guerra primitiva: ci attaccano per ciò che siamo, anche se spesso non ci ricordiamo di esserlo. Ci colpiscono per la libertà che rappresentiamo, a cui dunque non possiamo rinunciare. Potremmo dire che ciò di cui stiamo morendo, è ciò che ci fa vivere, dandoci una ragione, un valore, persino un’identità.

Poi c’è la metafisica della paura, l’immateriale, che riguarda noi e non loro. È il sentimento di perdita di controllo complessivo e progressivo del mondo, l’infragilimento delle strutture di governance costruite col meccano grandioso e velleitario del Novecento, in una parola la sfrontata gigantesca autonomia della crisi che ci sovrasta, il nostro affacciarci sulla regola infranta, sui codici saltati, su un futuro spaventato perché il presente è alla deriva.
Questa paura è solo in parte indotta, perché è in larga misura autogenerata, dunque più pericolosa. Qui si annida infatti la svalutazione dell’esperienza, lo svilimento della conoscenza, il deprezzamento della competenza, il rifiuto della politica, che era stata inventata proprio per applicare questi saperi alla realtà, governandola. Ma oggi è come se di fronte alla crisi, e alla violenza che ci assale, nessun sapere avesse più efficacia, e il deposito cognitivo addirittura non avesse più valore: mentre la politica appare non soltanto disarmata, ma fuori gioco se non compromessa, comunque colpevole, parte del problema e non della soluzione.

È un’abdicazione intellettuale, e porta dritto alla sterilità culturale, che è prima di tutto una deprivazione identitaria, perché sfocia nella neutralità dei valori. Tipica dei sentimenti da fine d’epoca, all’esaurimento di un ciclo storico, nella decadenza, quando Nietzsche spiega che perdendo le capacità spontanee di autogoverno individuale e collettivo si sceglie istintivamente ciò che è nocivo, e si preferisce l’artificiale al reale.

Ecco che spunta proprio qui l’ultimo prodotto della paura, dal fondo primordiale jihadista degli omicidi rituali, fatti di sangue e di sacro: l’irrazionale. Ipnotizzati dal male e dalla nostra incapacità di difenderci (con ogni mezzo: perché si tratta di difendere i cittadini e la democrazia sotto lo stesso attacco) noi rischiamo di essere sedotti da un cortocircuito emotivo che cerca protezione nei simboli e nei simulacri, gettando via la costruzione faticosa di una governance democratica, realizzata nei decenni in un processo politico tormentato e imperfetto, ma insostituibile.

Rischiamo, in poche parole, di dare alla democrazia le colpe della politica, concludendo spaventati che i suoi principi sono buoni nella carta delle Costituzioni ma non nella realtà di un mondo complesso, visto che non garantiscono sicurezza, tutela, governo, benessere. La paura agisce fin qui, deformando i fondamentali del nostro modo di vivere, rendendoli precari, improvvisamente quasi provvisori. Come se ci fosse qualcosa oltre le colonne d’Ercole della democrazia, supremo autoinganno esoterico.

Non c’è un rifugio nell’altrove, la sfida è ora ed è qui, dove dobbiamo batterci. Prima, cominciamo a dare un’identità politica alle vittime del terrorismo, uscendo dall’indistinto dell’anonimato con la coscienza che sono state scelte in mezzo a noi e al nostro posto; e sono state uccise proprio perché fanno parte del mondo libero e democratico in cui viviamo e di cui siamo testimoni. Poi, di conseguenza, ricordiamoci che abbiamo molto da difendere, a patto di esserne consapevoli. Infine, restituiamo quello zainetto ai nostri figli, col suo carico semplice di quotidiana, banale libertà.