Prosegue il nostro viaggio nelle città attraverso i racconti d'autore. Nelle parole della scrittrice palermitana, una storia di amore e miracoli (Illustrazioni di Laszlo Jezek)

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Giacomino in quella casa zeppa di giocattoli c’era capitato per sbaglio, portato da una cicogna disorientata. Dal terrazzo, incastonato tra le colonne di porta Carini, si godeva una vista magnifica. Lo sguardo poteva spaziare da monte Pellegrino al teatro Massimo, fin quasi a porta Nuova. Il bambino si beava dei riflessi dorati che irradiavano dalle guglie della cattedrale, e adorava la tenue colorazione rosa delle montagne all’imbrunire. Le chiome degli alberi di via Volturno, un oceano verde scuro di foglie fitte, fremevano di correnti sotterranee. Il tribunale, maestoso e severo, emanava dal canto suo un lucore abbagliante. I suoi genitori, gente dal cuore grande, lo avevano amato come l’avessero fatto loro quel bambino dalla pelle di ebano. Nel lettone, grande abbastanza da accoglierli tutti e tre, prima di addormentarsi pregavano accorati:

«Madonna mia, ti ringrazio e dacci la salute». Le preghiere caddero nel vuoto, perché una malattia crudele colpì all’età di sei anni il bambino. I suoi occhi, neri di pece, si fecero acquosi. Le immagini che si formavano al fondo della retina cominciarono a sfilacciarsi e infine fu il nulla. La madre lo portò dal medico. Troppo tardi. Pianse, si disperò, maledisse la vita. «Povero figlio mio, condannato al buio nella città della luce».

Cominciò allora a raccontargliela lei la Palermo chiassosa e colorata del mercato del Capo, che si apriva ai loro piedi come il mare davanti a Mosè.

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«Ti piace, a mamma? Tocca, tocca la storia», gli ordinava e lo spingeva verso le colonne di pietra calcarea e i capitelli finto dorici che delimitavano il terrazzo di casa.
Lui indirizzava il viso verso sud, sporgeva le braccia oltre la balaustra di ferro e accarezzava allegro le scanalature scabre, fino alle punte arrotondate che tendevano al cielo. Allargava il torace e si riempiva il petto degli odori che salivano dalla strada.

Vicerè spagnoli, cupole arabeggianti, mosaici bizantini, sua madre gliene parlava come se lui fosse nato a Palermo e non tra le dune del Sahel. Radicato in un passato che non gli apparteneva, Giacomino aveva trascorso un’infanzia felice, finché non arrivò l’adolescenza a turbare il suo equilibrio. Il desiderio della scoperta irruppe allora nel suo animo quieto e lo rese insofferente alle carezze appiccicose dei genitori.

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«Voglio uscire» non faceva che ripetere, atteggiando le labbra carnose a un broncio tragico.
«Ti accompagno» rispondeva la mamma e inforcava la porta di casa così per com’era, con i capelli arruffati e l’abituccio liso. Perché farsi bella, se il figlio non poteva vederla? La malattia aveva cancellato dal suo cuore insieme alla speranza anche ogni traccia di vanità.

Giacomino stringeva le braccia davanti al petto, mentre i suoi occhi senza vita si riempivano di lacrime dure come cristalli. Era grande oramai, i compagni di scuola giravano da soli, lui non voleva essere diverso.
«Diverso tanto lo sei lo stesso!» sbottò un giorno la donna esasperata. «Loro sono bianchi e tu scuro come il fumo». Lui masticò veleno e la odiò.

Quando si fece un ragazzone pieno di desideri, e la ribellione consolidò i muscoli del suo torace liscio, Giacomino cominciò a organizzare la sua fuga. Una mattina all’alba, mentre i genitori dormivano fiaccati da una dolorosa consapevolezza, incurante delle loro raccomandazioni, aprì la porta blindata e scivolò sul pianerottolo con la leggerezza di una barca a vela.

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Il marciapiede appena fuori del palazzo era pieno di cascitedde, per non inciampare il ragazzo si tenne rasente il muro. Annusò i profumi delle verdure bagnate, gli aromi di basilico e menta. “Scegliere, scegliere, scegliereeee”. Le abbanniate gli indicarono la direzione. Piegò a sinistra e subito inciampò in un tubo di gomma teso tra il muro e la prima bancarella. Si rialzò veloce come una molla, i pantaloni umidi di una fanghiglia appiccicosa, s’immerse nella calura oleosa del Capo. Riconobbe il forno dalla fragranza di certe mafaldine soffici, che lui inzuppava nel latte. I semi di sesamo erano sabbia granulosa sulla crosta croccante. Le balate erano umide di sangue e acqua. Un limo dall’afrore pungente come urina sciabordò sotto le suole delle sue scarpe. Allargò le braccia per darsi stabilità, le dita sfiorarono la merce esposta con cura. Gli vennero in mente le descrizioni della madre: «Le arance accatastate formano una piramide color arancio; i carciofi cubi dalle pareti spinose; i limoni un mucchio caotico, le foglie sono smeraldi sintetici che fanno capolino dalle fessure». La donna, per descrivergli la quotidianità banale, raschiava il fondo del suo vocabolario. Giacomino si aggrappò a quelle parole, per orientarsi nella sua oscurità e proseguì fino al banco di Santino.

«Fresco, fresco, amunì accattativi u pisci».
Affondò le dita nel ghiaccio, il freddo improvviso lo fece rabbrividire. Esplorò quell’iceberg di pesci serici dalle taglienti spade, gamberi croccanti, mollacchiosi calamari, polipi pigri dai tentacoli vischiosi. Se ne stava rigido con le narici dilatate, annusando tutto intorno come un segugio.

«Ti piace?» gli soffiò nell’orecchio una ragazza. Quella voce morbida si infilò nei suoi timpani come una biscia nella tana. Un profumo di fragole e mirtilli lo avvolse. Si sforzò di guardare in faccia quello che il suo cuore percepiva come bellezza pura, le palpebre morte si mossero a vuoto.
«Altro che pesce, questa è vera carne» continuò lei, ammiccando in direzione di un giovane dai muscoli tesi, che faceva a pezzi un tonno.

Giacomino fraintese e, convinto che la ragazza si prendesse gioco di lui, le rispose piccato: «Il banco della carne è più avanti, verso la chiesa dell’Immacolatella».

«E allora andiamoci» concluse lei, tirandoselo dietro. Di nuovo quel profumo di frutti e sottobosco. Giacomino ancora non si fidava e oppose una lieve resistenza. Poi pensò che il peggio della vita lui lo stava già vivendo. «Nulla è più brutto della cecità» considerò e atteggiò la bocca in un sorriso.

«Ti chiamerò Mirtilla» disse accostandosi a quel corpicino sconosciuto che sudava energia. Lei gli sfiorò il viso con i capelli, erano sottili e carichi di elettricità. S’incamminarono vicini, tenendosi per mano. Fatti pochi passi, la testa di Giacomino prese a girare. Sarà stata colpa dell’aria che nelle viscere del mercato si faceva più pesante, sarà stata quella scossa che lo faceva fremere come un filo d’erba, ma all’improvviso si sentì disorientato. I suoni familiari erano diventati un frastuono sconosciuto. Gli aromi dell’aglio e delle spezie mulinavano nel naso velocemente.

«Il panificio, dov’è?» chiese angosciato. «E la torrefazione?»
«Entriamo in chiesa» suggerì lei. All’ingresso qualcuno sbarrò loro il passo.
«Dovete pagare un contributo volontario» disse l’Erinni urlante.
«Se dobbiamo, il contributo è obbligo, no volontario» ribatté Mirtilla facendole il verso. Ma quella non sentiva ragioni e la discussione degenerò.

«Ti pare che siamo turisti?» sbottò la ragazza e la sua lingua fendeva l’aria con un sibilo sinistro. Giacomino si sfilò dalla rissa e scivolò dentro con cautela: «Io intanto mi siedo che non mi sento tanto bene». Mirtilla gli andò dietro con uno scarto improvviso: «Portami fuori di peso» urlò alla guardiana che emanava un puzzo di zolfo.

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Si trovarono immersi in un’atmosfera stantia e polverosa. Il ragazzo la conosceva bene quella chiesa, sua madre gli aveva parlato per ore della sottile trina di marmi mischi, della preziosità di quel barocco urlato a pieni polmoni e sbattuto in faccia a una umanità dolente.

«Prendimi» lo stuzzicò Mirtilla e lo mollò da solo come un babbeo. Lui, obbedendo a un richiamo ancestrale, si mosse con inaspettata sicurezza. Toccò il primo paliotto, quello di Santa Rosalia nella grotta. Peccato che fosse stato ricoperto di vetro, i tasselli turchini e gli intarsi di bianco di Carrara erano una vera delizia per le sue dita sensibili. Palpò con malizia morbosa le colonne tortili del secondo altare e barcollando come un ubriaco, sbatté le gambe contro le sedie della prima fila.

«Prendimi» urlava dal fondo una vocina maliziosa. Lui si girò e corse in quella direzione, finché non l’acchiappò. La tenne stretta a sé, respirando il suo profumo dolce. Naufragò su quel corpo esile, inseguendo un raggio di luce che lo illuse di poter tornare a vedere; i ricci castani e disordinati di Mirtilla lo ricoprirono come nero di seppia. Sfiorò il collo morbido di lei, doveva avere il colore dell’avorio. Un’immagine di bellezza folgorante passò nella sua retina atrofizzata, era quello il miracolo della Madonna della Luce. Non lo sapeva ancora Giacomino che l’amore stesso è miracolo. Un desiderio nuovo lo fece tremare. Mirtilla scoppiò a ridere e si svincolò dall’abbraccio. Lui la seguì come in trance.

Si incamminarono per la via dei Beati Paoli. Si sentiva l’abbaiare dei cani rinchiusi nei bassi, il frusciare dei teli di plastica sulla biancheria stesa ad asciugare, il mormorio indistinto dei vecchi davanti alle edicole votive. Giacomino si lasciava condurre da una nuova eccitazione, le gambe molli di un turbamento sconosciuto. Il giardino di Sant’Agata alla Guilla era colmo di zagara. Lei ne raccolse un rametto e se lo mise tra i capelli. Il ragazzo non riuscì più a trattenersi e la baciò sulla bocca, la lingua aveva la consistenza di una fragola matura. Si sentiva stordito, tuttavia la sua mente era lucida mentre sprofondava in una sorta di esaltante onnipotenza.

Quando si staccò ebbe la certezza che quella era la vita che voleva vivere. Non sarebbe più tornato a casa. A piazzetta Sett’Angeli si fermarono all’ombra della cattedrale. «È il posto più bello della città» sussurrò Mirtilla placata dal bacio. «Peccato che tu non possa vederlo». «Sembra carbone» esclamò lui e con le dita rincorse i secolari chiaroscuri. Gli venne voglia di osare e affondò il viso nei seni svettanti della compagna, i suoi muscoli fremettero di voluttà virile. Dimenticò la cecità, altro che disabile, lui era invincibile. Aveva attraversato un intero continente e non il mercato sotto casa.

Giuseppina Torregrossa è nata a Palermo, ha esercitato per molti anni ?la professione medica. Ha esordito nella scrittura nel 2007 con “L’assaggiatrice”. “Il conto delle minne” (Mondadori), nel 2009, ?è stato un successo editoriale. Il suo ultimo romanzo si intitola “Cortile Nostalgia” (Rizzoli).