Nel Nordest della Siria si combatte la battaglia finale contro gli jihadisti. Tra migliaia di sfollati dimenticati

34-DEZZ_WEB
« Le anime di coloro che hanno nuotato nell’Eufrate avranno sempre la forza di ricominciare a vivere», recita un proverbio siriano. I figli dell’Eufrate - che i locali chiamano al-Furat con lo stesso affetto di cui si parla di un compagno di avventure - sanno badare a se stessi e trovano il modo di sopravvivere alle avversità. Ma la resistenza umana ha un limite, e al settimo anno di guerra in Siria anche il proverbio ha perso il significato originario diventando una rassegnata battuta di spirito.

«Preferisco vivere con l’Isis piuttosto che stare qui». La pazienza di Ahmed è finita. Lui e la sua famiglia vivono a Bahara da dieci mesi. Sono scappati dai combattimenti nella vicina Hajin e da allora condividono con altre 200 famiglie un insediamento di tende mai raggiunto dagli aiuti umanitari. La fuga non è bastata, la guerra è stata più veloce: oggi Bahara è sulla linea del fronte. «È umano tutto questo?», domanda Ahmed. «I curdi ci hanno detto che saremmo rimasti solo dieci giorni, e invece sono passati dieci mesi. Non abbiamo fatto nulla di male; è vero, non siamo stati capaci di fermare l’Isis, e allora? Uccideteci se volete, oppure fateci tornare a casa».
03-DEZZ_WEB


Intorno ad Ahmed si stende una piana di terra brulla mista a sabbia, qualche pecora e una latrina recintata da un telo azzurro su tre lati. L’uomo racconta di aver visto il figlio diciottenne perdere entrambe le gambe su una mina. La rabbia la esprime con gesti accorati e parole quasi sillabate: «I curdi ci dicono che saranno gli Stati Uniti a decidere quando potremo tornare a casa. Bene, rispettiamo gli Stati Uniti, ma non possono trattarci come se fossimo dell’Isis. Ad Hajin - continua - c’era tanta brava gente che ha sempre vissuto in pace. Prima che arrivasse l’Isis non eravamo capaci di sparare un proiettile, adesso i nostri occhi non riescono a dimenticare le decapitazioni a cui abbiamo assistito».
09-DEZZ_WEB

La sorte di Ahmed è toccata a tanti sfollati della provincia di Deir ez-Zor. Solo l’anno scorso erano più di 255 mila. Sca ppavano dai bombardamenti russi che hanno riconsegnato la città nelle mani dell’esercito siriano, sostenuto dagli alleati Hezbo llah e dalle milizie iraniane. Ma l’avanzata contro l’Isis ha seguito due traiettorie: a ovest di Deir ez-Zor i russi con Assad, a est le Syrian Democratic Forces-Sdf, supportate dalla coalizione a guida americana. Adesso, tra i villaggi di Hajin e Abu Kamal, si combatte la battaglia finale. È questa l’ultima sacca dell’Isis nel nord-est della Siria. Secondo alcuni qui si troverebbe al-Baghdadi, ma il leader dello Stato Islamico potrebbe essere fuggito prima dell’assedio di Hajin e aver trovato riparo insieme ad alcuni fedelissimi nel deserto a ridosso dell’Iraq.
14-DEZZ_WEB

In questa propaggine orientale di sabbia gialla, il sole si intravede appena dietro il lenzuolo di polvere sollevata dai mezzi blindati. Una dietro l’altra, come frammenti di uno scenario apocalittico, appaiono le raffinerie di petrolio di Omar e Tanak. Da queste e altre della provincia di Deir ez-Zor, l’Isis ha estratto l’oro nero la cui compravendita gli ha fruttato un milione e mezzo di dollari al giorno. I bombardamenti della coalizione hanno distrutto quasi interamente i due stabilimenti, che sono poi stati in parte ripristinati per rifornire le attività militari della vicina base americana. Lasciati alle spalle i cancelli dell’ultima raffineria, il deserto torna a essere un monotono piano sequenza incorniciato dal finestrino di un tank. Non ci sono neanche gli uccelli a restituire una parvenza di vita, solo qualche sparuto arbusto cresciuto chissà come, dal nulla. Scendendo verso sud, lungo un percorso privo di punti di riferimento, compare una tenda. Al riparo dal caldo ci sono una ventina tra donne, bambini e anziani che aspettano di essere identificati dagli uomini dell’intelligence delle Sdf per entrare nel campo temporaneo di Hajin. A una decina di metri di distanza, dodici uomini siedono a terra, separati dalle loro famiglie.
28-DEZZ_WEB

«Veniamo dall’inferno», racconta un vecchio appena scappato da al-Baghoz, «le nostre case sono in fiamme. Quelli dell’Isis ci hanno mandati via poco prima che bombardassero». Se a volte sono i jihadisti a far evacuare i locali prima dei bombardamenti, altre volte li tengono prigionieri nelle loro stesse case. Vestiti allo stesso modo, con la stessa barba, diventa impossibile per la coalizione distinguere i civili dai miliziani e quindi bombardare. Le Sdf temono quindi che tra i civili in fuga possano nascondersi degli infiltrati, e il trattamento subìto non piace a tre uomini di Abu Kamal: «Perché ci tenete qui?», lamentano a turno. «Abbiamo denaro sufficiente per comprare da mangiare e pagare un albergo. Fateci andare via». Le condizioni di vita nel campo sono disastrose e non c’è libertà di movimento. Mohammed, il responsabile, è un ingegnere civile ed è spaventato dal numero crescente di sfollati a cui non riesce a offrire un riparo dignitoso: «La guerra è vicina alle zone abitate, se l’afflusso continua ci serviranno migliaia di tende. Ma gli aiuti arrivano solo dal Consiglio Civile di Deir ez-Zor, e non bastano. Non ci sono bagni e per portare l’acqua abbiamo appena cinque cisterne. Finora siamo stati in grado di distribuire solo pane a giorni alterni». Per le 150 persone intrappolate nel campo non c’è alternativa, bisogna aspettare. Ma quanto? E per andare dove? L’incertezza è una lama che pesa sul cuore di Subhia, incapace di accettare che la creatura di pochi mesi che stringe tra le braccia possa morire per mancanza di cure. Diarrea, cancro, diabete, non fa differenza. Senza dottori, medicine e ambulanze è solo una questione di giorni, forse ore.
20-DEZZ_WEB

L’Eufrate scende dalla Turchia, entra in Siria e arriva fino al Golfo Persico attraversando l’Iraq. Nel suo tratto siriano, dopo essersi acquietato nel lago Assad, curva bruscamente e trova la spinta per arrivare fino a Raqqa e, più a sud, raggiungere Deir ez-Zor. Qui diventa lo spartiacque tra le postazioni russe e quelle americane. Nella base di Buseira, ad appena 15 chilometri dall’area controllata dal regime siriano, il comandante dell’operazione Sherko non ha dubbi sul futuro post-Isis: «Ci troveremo ad affrontare una guerra dentro la guerra. Sarà una nuova battaglia per ripulire la testa delle persone dall’ideologia radicale inflittagli dall’Isis. Se ce la faremo, ci vorranno generazioni per considerare la società guarita». Intanto sul campo l’avanzata delle Sdf procede a fatica perché «oltre a ottimi leader, l’Isis ha ancora a disposizione gli elementi migliori, quelli che combattono con il cuore, che non si arrenderanno mai», spiega il comandante. «Nonostante siano militarmente finiti, nelle zone liberate dispongono di potenti cellule dormienti che permettono ai miliziani di anticipare le nostre mosse e disseminare mine ovunque: sugli alberi, a bordo delle strade, nei frigoriferi, dentro ai giocattoli, sotto alle coperte. In un solo giorno abbiamo perso 15 uomini».
31-DEZZ_WEB

L’ospedale di Medici Senza Frontiere-Msf a Hassakeh registra una media di un ferito al giorno a causa delle mine: più della metà sono bambini, la maggior parte proviene dalla provincia di Deir ez-Zor. Secondo fonti delle Nazioni Unite, l’anno scorso 800 mila persone so no tornate a Deir ez-Zor nonostante i rischi causati dalla presenza di mine e di altri ordigni esplosivi. Questo significa che con la guerra in corso, centinaia di migliaia di persone sono state sfollate anche più di due o tre volte, e un gran numero vive ancora nei campi di Abu Khashab, Harisha e al-Hol, o in insediamenti informali senza assistenza. Come Nassar, Hussein, Sedar, Terfa e Amed, scappati un anno fa durante un raid aereo russo da un villaggio vicino Deir ez-Zor. Sono un centinaio e abitano in una scuola abbandonata senza finestre ad Harijieh, a 80 chilometri a nord di Hajin.
01-DEZZ_WEB

«Viviamo come merde», tuona Nassar, che per mantenere la famiglia pulisce le cisterne di petrolio. «Le organizzazioni sono venute due volte e ci hanno portato dentifricio e sapone per il bucato. Ma cosa ce ne facciamo se non abbiamo cibo, medicine, acqua corrente, elettricità?». Nassar, Hussein, Sedar, Terfa e Amed sono gli ultimi di Deir ez-Zor. Quelli che non ricevono aiuti umanitari né potranno tornare alle proprie case perché il regime siriano li manderebbe al fronte. Quelli che vivono di pane e tè zuccherato. Quelli che mettono a seccare le melanzane perché non ci saranno verdure da mangiare in inverno. Quelli che senza un impiego decente e la dignità calpestata so no i potenziali mercenari di una nuova guerra nella guerra.