Combattono corruzione, dittature, neocolonialismo. Dal Senegal al Congo gli studenti riscoprono civismo e partecipazione. Un ’68 nero

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Dakar, fine luglio 2018: per la prima volta si riuniscono vari movimenti giovanili e studenteschi africani. L’Africa che immaginiamo in Occidente da tempo non esiste più: è ora una pentola in ebollizione in cui i giovani sono un nuovo soggetto libero da condizionamenti e alla ricerca di “avventura”. Il civismo africano è già nato e si organizza su scala continentale. A convocare la riunione il più noto fra i movimenti: “Y’en a Marre” (non se ne può più), il gruppo senegalese che ha contribuito alla caduta del presidente Abdoulaye Wade alle elezioni del 2012. Ma sono in tanti: c’è il Balai Citoyen del Burkina Faso (simbolo la scopetta africana) all’origine delle manifestazioni che obbligarono Blaise Compaoré a lasciare; Filimbi (fischio) e Lucha (lotta per il cambiamento) della Repubblica Democratica del Congo; En Aucun Cas del Togo; Wake Up del Madagascar; Jeune et Fort del Camerun; GT Jeunes della Costa d’Avorio; Ras-le-Bol del Congo Brazzaville; Sindimuja (non sono schiavo) del Burundi; Iyana del Ciad e altri. Si definiscono “movimenti civici” o di cittadinanza e hanno numerose rivendicazioni: più democrazia e partecipazione, no alle gerontocrazie al potere e ai presidenti a vita, no alla corruzione e alla repressione, sì all’unità africana e alla libera circolazione, no alla collaborazione anti-migrazioni con l’Europa, liberazione della donna africana, difesa dell’ambiente, no al land grabbing e alle monoculture ecc.

Anche se nel loro pantheon ci sono Fanon, Lumumba o Sankara, non sono ideologizzati e non sposano partiti o candidati. Rappresentano una nuova Africa giovane che diviene soggetto connettendosi e cercando vie diverse per essere protagonista in maniera autonoma ed esprimere il proprio dissenso davanti ai tanti mali d’Africa. Non per nulla il titolo della riunione è: “Cittadinanza e potere di decidere”.

C’è una storia dietro l’emergere di questa giovane “Africa civica” e il Senegal è un buon osservatorio per capirla. Si tratta del Paese dove la democrazia funziona meglio: alternanza, rispetto per le istituzioni, una certa libertà di dibattito e dissenso sconosciuta in altri Paesi del continente. Molti intellettuali e artisti senegalesi - in particolare musicisti - sono famosi e non temono di criticare e disapprovare il potere. Già nel 1980 il presidente- fondatore Léopold Sédar Senghor si dimise per lasciare il posto al delfino Abdou Diouf. Tutto si svolse senza scosse all’interno del quadro politico dominante. Senghor è stato un presidente severo, ha governato con autorità, ha utilizzato la pena di morte e represso il ’68 di Dakar. Ma resta pur sempre un intellettuale raffinato e dimettendosi lancia ai suoi pari d’Africa un messaggio in assoluta controtendenza: non esiste un presidente a vita.
La seconda alternanza è più genuina: nel 2000 il socialista Abdou Diouf deve cedere il passo all’avversario liberale Abdoulaye Wade. È l’epoca del “sopi”, il cambiamento, che giunge con il sostegno attivo dei giovani. La delusione che segue, gli scandali finanziari a ripetizione e - soprattutto - la decisione di Wade di ricandidarsi per la terza volta “forzando” la lettera della Costituzione, provocano la terza alternanza: la sconfitta del presidente in carica in favore di Macky Sall, l’attuale leader. Anche in questo caso i giovani svolgono un ruolo decisivo. Il Senegal rappresenta dunque un unicum in Africa: non ha subito colpi di Stato né rivoluzioni sanguinose, dimostrando che l’alternanza è possibile senza sconvolgere le istituzioni o il dettato costituzionale. La sua società civile è vitale e inquieta; ogni cambiamento è avvenuto con il contributo delle numerose forze politiche e socio-religiose presenti nel paese, prime fra tutte le confraternite musulmane, i muridi, i tijiani, i qadiri. Se tutto ciò è complesso, qui interessa capire il ruolo degli studenti e delle nuove generazioni, che già nel 1968, sulla scorta dell’esempio parigino, avevano fatto sentire la loro voce. Come in tutta l’Africa, anche in Senegal i giovani sono numerosi: oltre il 65 per cento della popolazione ha meno di 25 anni.

La storia del Senegal indipendente è disseminata di episodi di mobilitazione e contestazione giovanile. Gli anni ’80 sono anni difficili per il continente e per il Paese: la crisi economica si fa sentire aggravata dalle misure di austerità indotte dall’aggiustamento strutturale. L’economia senegalese non si è mai liberata dalla dipendenza di poche monocolture, tra cui primeggia quella dell’arachide. Lo Stato si impoverisce e la recessione colpisce le classi medie impiegatizie, la low middle income class dell’epoca, che perde i suoi relativi privilegi. Si spengono i sogni di ascesa sociale e inizia una fase di declassamento. Il 1989 è anche l’anno delle tensioni alla frontiera con la Mauritania, che provocano violenze intracomunitarie e centinaia di vittime. La reciproca caccia all’uomo è uno choc per i senegalesi. Quasi a voler cancellare il sangue versato, nel 1990 nei quartieri medi di Dakar si forma spontaneamente un movimento studentesco, il Set Setal (pulisci), la cui eco è amplificata da una canzone di Youssou N’Dour. I Set Setal sono giovani accompagnati da artisti che si mettono a “pulire”, lavando e abbellendo i quartieri della città, in un desiderio di riscatto per ciò che è avvenuto, per il sangue che ha “sporcato” le strade. È anche il tempo del hip hop. In un contesto di scioperi e malumore sociale, si formano molti gruppi rap che con i loro testi iniziano a esternare apertamente frustrazioni e rivendicazioni. Il successo è immediato.

Il vecchio Senegal sta stretto ai giovani che ora vogliono contare. È dalle elezioni del 1988 che la contestazione si coagula progressivamente attorno al candidato del “sopi”, del cambiamento, l’oppositore di sempre: il liberale Abdoulaye Wade. Il regime socialista capeggiato da Diouf sembra ormai vecchio, superato, esangue. Il fenomeno Bul Faal cresce lungo tutti gli anni ’90 fino ad accompagnare Wade alla vittoria nel 2000. Ma non si tratta di una vera organizzazione: è piuttosto un modo di vivere, parlare, vestirsi, pettinarsi, un’etica giovanile specifica, mescolata ad elementi religiosi di origine murida. Figure di successo Bul Faal sono i rappisti o i campioni di lotta senegalese tradizionale: gente che si è fatta da sé, senza padrini o raccomandazioni.

Soprattutto si tratta di personaggi senza “lignaggio” e quindi in teoria esclusi dalle élite politico-religiose. In questa maniera il Bul Faal diviene un sistema di critica culturale e sociale al potere ma anche un ascensore sociale. Da una parte protesta, dall’altra spinge tutta una generazione verso l’alto. Bul Faal promuove manifestazioni di protesta contro la corruzione, reagisce alla mancanza di beni di prima necessità, polemizza per lo stato di abbandono del sistema scolastico, occupa quartieri contro i ripetuti black-out. I giovani Bul Faal sono nell’università ma anche nei quartieri periferici, provocando continui scontri con la polizia, talvolta violenti come lo sono i testi degli artisti rap. La generazione Bul Faal rimette in discussione non solo l’autorità della famiglia tradizionale: contesta e rompe l’antico principio di obbedienza (ndiguel) con cui i giovani devono sottostare alle consegne dei marabutti e degli anziani. I giovani affermano un protagonismo nuovo. L’ascesa al potere di Abdoulaye Wade - che si dichiara il candidato dei giovani e dei disoccupati - si deve sia a loro che alle confraternite. D’altronde, infrangendo la consuetudine politica laica del Paese, Wade stesso ha deciso di presentarsi come il candidato “murida”. Ma le confraternite sono anch’esse sotto accusa e cercano di reagire con un nuovo stile: sorgono nuovi leader muridi per giovani, di manica più larga per quanto concerne la pratica religiosa. Predicano la “riuscita” ma usano molto la danza e il canto come liberazione del corpo, molto simili alle sette neo-cristiane che stanno diffondendosi in Africa.

Il disinganno dei Bul Faal è rapido e la delusione cocente. In pochi anni il nuovo presidente scontenta tutti proseguendo la politica di austerità precedente e dimostrandosi non meno severo di Diouf. Una serie di scandali finanziari offuscano presto la sua immagine, così come il nepotismo di alcune sue scelte. La crisi morde e gli anni 2000 sono quelli delle grandi migrazioni: piroghe partono senza sosta dalla costa senegalese in direzione del Marocco e della Spagna. Quando il presidente accetta un accordo per fermare il flusso, la rabbia giovanile cresce a dismisura: per strada si grida “Barça ou barsakh” (Barcellona o l’inferno). La scintilla definitiva è provocata dalla scelta del presidente di “forzare” la costituzione, ripresentandosi per la terza volta. Influenzati da ciò che vedono in Tv della Primavera araba e convocati mediante social media, il 23 giugno 2011 gli studenti scendono massicciamente in piazza. È la data di nascita di “Y’en a Marre”. A differenza di Bul Faal, il fenomeno Y’en a Marre è molto più organizzato. I giovani hanno capito dall’esperienza precedente che non bastano sit in, meeting o concerti di protesta: ci vuole una vera organizzazione. Ancora una volta il rap fa la sua parte ma l’organizzazione è molto meno spontanea, grazie all’aiuto di internet. Y’en a Marre incassa una prima vittoria con la sconfitta di Wade alle presidenziali del 2012 ma non si accontenta. Gli studenti non commettono l’errore di fidarsi di un candidato, nemmeno del neo-eletto Macky Sall. Il movimento si radica nelle città senegalesi e inizia ad elaborare proposte.

L’idea principale è quella di un “nuovo ordine nazionale” e di un “nuovo tipo di senegalese”, più responsabile di sé e del suo ambiente. La retorica delle critiche anti-occidentali (tratta e colonizzazione) passano in secondo piano: ora “il boia è nero”. Y’en a Marre accusa tutte le élite nazionali di fallimento: non solo i politici ma anche i leader religiosi confraternali, che pure stanno cercando di reagire con la nascita dei nuovi movimenti più vicini ai giovani. Andando oltre l’ambiente del dissenso artistico e musicale, Y’en a Marre riceve il sostegno di giornalisti, intellettuali, scrittori, organizza iscrizioni di massa sulle liste elettorali, stila richieste per i candidati. Nascono i “cantieri”: collettivi di riflessione dove gli studenti si confrontano su civismo, democrazia, salute, ambiente ecc. I responsabili di Y’en a Marre ricevono visite importanti: il ministro degli Esteri francese Fabius, il finanziere Soros, incontrano Obama durante la sua visita a Dakar nel 2013. Tra Bul Faal e Y’en a Marre c’è una continuità di rivendicazioni ma anche un superamento mediante la maturazione dell’approccio: più movimentista il primo, più “politico” il secondo. Entrambi tuttavia esprimono il desiderio dei giovani senegalesi - a partire dagli studenti liceali e universitari - di essere protagonisti e di crearsi il proprio spazio nella collettività. Nel periodo intercorso tra i due fenomeni in Senegal cadono molti tabù. Una società che con l’indipendenza era riuscita a fondere assieme tradizione religiosa e laicità moderna nel quadro di istituzioni rispettate, si rende conto di non essere riuscita a corrispondere ai desideri delle giovani generazioni, ai loro sogni di libertà, democrazia e benessere.

Ora i giovani esprimono apertamente il loro dissenso verso tale “contratto sociale senegalese”, contaminando tutti. Sia Bul Faal che Y’en a Marre costituiscono un reale ’68 senegalese: una rottura antropologica che trasforma i giovani da “classe di età”, com’era in uso, a individui. Si tratta di un processo di soggettivazione che cambia il Senegal e al quale devono adattarsi anche le confraternite religiose, vero e proprio cuore identitario del paese. L’esempio fa scuola in tutta l’Africa.