Pistole. Droga. Spaccio. Rapine. Scommesse clandestine. Furti. Combattimenti di cani. Così vivono tanti minorenni. Dai rioni di Palermo fino alla periferia di Milano (Foto di Neige De Benedetti)

«Mi piace sparare con la pistola. Io sono coraggioso», giura Antonio. «Con il mio socio siamo andati a casa di uno, se marchi male ti facciamo secco», precisa Mattia. Antonio e Mattia hanno sedici anni e vivono due vite parallele: uno a Palermo, l’altro a Milano. Ragazzini sospesi nella violenza, tra un presente ai margini e il sogno di potere che diventa ossessione da esibire.

È l’Italia dei bambini in guerra (spesso tra loro) per pochi spiccioli e un futuro da boss. Un esercito a buon mercato per la criminalità organizzata. Da inizio anno, in appena un mese e mezzo, in Italia sono finiti in un centro di recupero oltre 160 minorenni. Più di 200 in comunità, 145 in un istituto penale. Sono accusati soprattutto di rapine e spaccio, ma anche di omicidio volontario.
Parco giochi a Brancaccio.

«A Brancaccio non c’è più Cosa Nostra come una volta. C’è e non c’è: cioè, qua si ragiona», dice Paolo. Cammina mani in tasca lungo via Conte Federico, la “strada della morte” durante la guerra di mafia. Il silenzio è rotto dall’abbaiare dei cani rinchiusi nei garage: escono solo per i combattimenti clandestini. «Conosco tutti nel quartiere, ma i Graviano non so chi siano». La palazzina dei parenti di “Madre Natura” affaccia proprio lì. «Cugi’ che vuoi?» Si sente gridare da dietro le imposte azzurre. «Io non scendo mai a Palermo», dice Maria. Per lei il mondo si ferma qua. Adolescente con le trecce e «un po’ di problemi con la giustizia», ha picchiato una vigilessa e «anche il vigile, ma nel foglio non c’è scritto», ammette con candore.

Brancaccio è un’identità scritta a forza sulle saracinesche chiuse. «Qualcuno qui dice che la mafia è bella», confessa un quindicenne. Un suo amico ha appena fatto una rapina, la prova violenta. Del resto, l’ultimo custode del libro mastro del pizzo aveva poco più che vent’anni. Negli “Stati Uniti”, la zona accanto al passaggio a livello pozzanghera di povertà, si smontano motorini, perché «le cose rubate qui ci possono stare». Giovanna ha quattordici anni e abita dietro a una porta con il nome scritto sul cartone. Sono in sei in una camera e cucina vista strada. Il padre, un passato da piccolo criminale, la accompagna negli scantinati da dove si sospetta sia partita la Fiat 126 che ha seminato la morte in via D’Amelio. Oggi ci sono grembiuli e disegni colorati, come voleva Padre Pino Puglisi. «Si portava i picciriddi cu iddu », ha svelato il suo sicario Salvatore Grigoli. Questa la sua colpa: toglierli dalla strada.

«Tutti i giorni mi devo difendere», dice Rosalia, undici anni e l’ombretto «abbinato al colore della maglietta», spiega. Frequenta la scuola Giovanni Falcone, presidio di legalità spesso vandalizzato dentro la Zona Espansione Nord. «Vivo allo Zen 2», spiega, «è più bello lo Zen 1, ma se parli di criminalità meglio lo Zen 2».
Diciottomila abitanti dichiarati, in realtà 30 mila, chiusi dentro palazzi di cartongesso feriti dallo scirocco e mai assegnati. Frigo e materassi fioriscono nei giardini e su un muro qualcuno ha scritto «la tua invidia è la mia fortuna». Di fronte campeggia «sporchi neri no ius soli», ma i migranti non si vedono.

«Qui ci sono trecento persone che vendono cocaina», rivela il pentito Sergio Macaluso. I capi, Fabio Chianchiano e Tonino Lupo, comprano ragazzini «con venti euro e due canne» per nascondere pistole e cristalli di cocaina. Al Bar Siris c’è una squadra di sentinelle, in fondo un’altra, lungo le scale pitbull e rottweiler.
Lo Zen, stereotipo di inferno, bisogna guardarlo «da dentro e dal basso», scrive l’antropologo Ferdinando Fava in “Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’esclusione”. All’ascolto di chi ci vive, «perché nessuno sceglie di spacciare», spiega un’operatrice che nel silenzio cerca di riannodare i fili e costruire alternative.

Tra bottiglie di plastica che rotolano, Luca tira un calcio al pallone. Marco gli corre dietro. È tornato da poco dalla Germania: «A me lì non piace, perché chiamano subito la polizia». «La polizia mi fa schifo», precisa Luca, che oggi ha vinto 120 euro. «Ho chiuso la bolletta, glieli ho dati a mia madre per la spesa». Sale scommesse a ogni angolo per sperare e riciclare. Questi bambini di dieci anni hanno una regola: «Quando ci fermano al centro commerciale è meglio non scappare. Ti portano da tua madre e deve pagare quello che hai rubato».
La cantante neomelodica Roberta Bella (al secolo Maranzano), insieme alla mamma e alla sorella Stefania.

Più in là, oltrepassata una porta di ferro sgangherata, si frigge tra specchi dorati ed Hello Kitty. Roberta Bella, al secolo Maranzano, canta «le delusioni d’amore, i detenuti, perché in tanti hanno il padre o il fratello in carcere». Il neomelodico che da Napoli si espande, via d’uscita per convivere con la povertà e ritagliarsi un ruolo nel disagio. Intona “si-pure-me-faje-male, io-te-vojo-bene” e mostra i milioni di visualizzazioni su YouTube. Le scrivono «sei il mio idolo, mado’ lacrime». Stefania, sedici anni e le unghie rosse con i brillantini, sfoggia con orgoglio un tatuaggio: «L’ho fatto uguale a mia sorella; io la amo». La madre la sognava avvocatessa, «ma lei non si alza al mattino». Stefania non va a scuola e Roberta è dispiaciuta: «Io ho avuto delle difficoltà, ho solo la terza media: agli esami ho cantato “tu si ’na cosa grande”». Stasera si esibirà in una serenata con il suo ultimo disco “Evolution”. «Cos’è per me l’evoluzione? Quando piace un brano, quando spopola tanto». Per pubblicarlo il padre «ha fatto due prestiti e ancora li sta pagando».

Lo stereo diffonde la voce di Roberta tra cortili curati e campi sportivi. L’auto si ferma davanti al circolo Eureka. Da qui, cinque anni fa, è uscito Pasquale Tatone prima di essere ammazzato a colpi di fucile. A Quarto Oggiaro, periferia Nord-Ovest di Milano, dove il camorrista era arrivato bambino.
Quarto Oggiaro, Milano.

Accanto al parco di Villa Scheibler, con il muro trasformato in galleria d’arte, tre quindicenni rollano una canna sulle sedie di plastica del Bar 2000. «Arancia Meccanica? Li conoscevamo. Hanno fatto un video musicale». Adolescenti a far le comparse, con le pistole sul tetto di palazzoni inneggiando alla «grana da fare con la marijuana». E poi per strada a far rapine, tanto violenti da venir paragonati alla banda che Stanley Kubrick raccontò in uno dei suoi film più famosi. Ai cinesi, «perché hanno i contanti», a un ragazzo perché indossa scarpe da 530 euro. La canna dell’arma puntata dritta in faccia, i tirapugni e le mitragliette scorpio, tutte fedeli riproduzioni senza il tappo rosso. «Si sentivano come dentro a un videogioco», rivela Antonio D’Urso, il dirigente del commissariato.

Sulla pista di skate che taglia il parco, Alessia e Giulia vogliono parlare: «Quarto non è il Bronx, ci sono tante persone oneste». Quarto con i centri di aggregazione e i murales con i simboli del riscatto.
Giovanna, 14 anni, a Brancaccio.

Periferie ordinate, quartieri di tranquillità borghese e il disagio di chi rincorre il sogno di una vita migliore comprandosi il “ferro”. «Siamo andati al supermercato a volto scoperto. Ci siamo presi sui cinquemila euro per andare in vacanza. In quattro giorni abbiamo speso tutto». A sedici anni. Michele s’è ritrovato a rubare senza sapere il perché: «I miei non mi hanno fatto mancare niente», ammette. Ora ha detto basta, racconta con il trap, il genere musicale nato negli appartamenti abbandonati degli spacciatori americani, «quello che i ragazzi non riescono a dire». E poi: «Voglio fargli un po’ da padre». Da padre a chi con arroganza diventa l’incubo dei coetanei. «Perché la noia è un tunnel da cui non si esce», chiarisce Mario, genitori impiegati, una sorella piccola. «Non avevo niente da fare e allora ho detto: va beh vado». A fare furti di abiti firmati con le foto dei trofei postate sui social. «Sono stato espulso da scuola, ho fatto un po’ male a dei compagni», racconta. E «i miei amici hanno spaccato il cranio a due gay».

«Siamo tutti un po’ colpevoli, se permettiamo che i giovani, da Milano a Palermo, riempiano il vuoto apparente delle loro vite con la violenza e il guadagno facile. Dobbiamo smettere di far finta di nulla. Loro sono il nostro futuro, non possiamo lasciarli soli», dice Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia.

José è arrivato da El Salvador per cambiare vita. Penultimo di dieci figli, abita con le sorelle più grandi «perché mia mamma lavora come badante e la vediamo solo la domenica». Ora sconta una pena per concorso in tentato omicidio: «Sono uscito dalla discoteca e ho trovato un mio amico. Non so perché è iniziata la rissa, alla fine uno è rimasto a terra accoltellato».
Maria, 17 anni, a Brancaccio. Ha picchiato una vigilessa.

Quel suo amico a 16 anni è entrato nella M-13, la Mara Salvatrucha. «Per loro portava la droga, ma prima devi superare il rito». Aggressioni con cinture e bottiglie, pestaggi e mandibole da fratturare. Più commetti atti violenti più ti accrediti.

MS-13, Barrio 18, Latin King, pandillas di ragazzi latini che si spartiscono la metropoli milanese, dal parco Trotter a via Padova, da Portello a Brenta. I quartieri ghetto nell’immaginario comune e le villette dell’hinterland. Carlo in meno di due anni ha costruito il suo business, perché «devi saper lavorare e rendere il cliente fedele». È la giovane imprenditoria «da dividere in “storie” da 0,4 grammi. Non è solo questione di soldi; sapere che dipendono da te ti fa sentire qualcuno». I suoi genitori non sospettavano nulla: «A casa con loro non ci parlavo mai». Sul comodino il libro “Mussolini e il fascismo” di Renzo De Felice e la maglietta di Marilyn Monroe. «Mi piace leggere per capire in che mondo mi trovo», dice mentre guarda il calendario con la X sui giorni che lo separano dalla libertà. Ha un’unica speranza: «imbarcarmi su una nave da crociera perché ho paura di ricadere nell’errore che ho fatto».