Chi c’è dietro il maxi-giacimento in Africa lo rivelano i documenti riservati: sono tre italiani legati al colosso statale. Ecco le carte e i documenti che spiegano come funziona

Aiutiamoci a casa loro. Rovesciando il famoso slogan elettorale anti-immigrati (“aiutiamoli a casa loro”) un fortunato gruppo di italiani, con un socio inglese, sono diventati proprietari di un enorme giacimento di gas in Africa, nel Congo francese. Una miniera di soldi che apparteneva allo Stato africano, che però l’ha venduta a società private, senza alcuna asta o gara, a prezzi molto inferiori al valore di mercato. Un affare miliardario con molte altre stranezze. Tra i soci privati, infatti, c’è un’azienda africana che è accusata da varie autorità internazionali di essere una “tesoreria occulta” del regime congolese: una società-satellite usata da politici e tecnocrati per portare soldi all’estero e comprarsi beni di lusso. Mentre gli investitori italiani non sono dichiarati o visibili pubblicamente: i loro nomi sono coperti da complicate reti di società offshore, ora svelate da L’Espresso in questo nuovo capitolo dei Paradise papers.

La nostra inchiesta giornalistica, fondata su documenti riservati dei paradisi fiscali, porta a quattro personaggi, due uomini e due donne, accomunati da una caratteristica: sono tutti collegati, direttamente o indirettamente, con i vertici dell’Eni, il colosso del gas e petrolio controllato dallo Stato italiano. La nostra più importante azienda pubblica, che da tempo è al centro di diverse indagini giudiziarie per gravissime accuse di corruzione a danno di altre nazioni africane, come Algeria e Nigeria.

Paghi 15, guadagni 430
Il giacimento al centro del caso si chiama Marine XI e vale almeno due miliardi. L’Espresso ha identificato gli effettivi titolari analizzando oltre 700 documenti estratti dai Paradise papers, il gigantesco archivio di atti societari che il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung ha condiviso con l’International consortium of investigative journalists (Icij), di cui fa parte il nostro settimanale. Le offshore dove spuntano gli italiani controllano il 23 per cento del mega-giacimento. Solo questa quota, secondo i documenti interni, vale 430 milioni di dollari. Ma è stata pagata appena 15 milioni. E senza sborsare un soldo di tasca propria, grazie a un prestito coperto interamente da un gruppo energetico con base in Svizzera.

Il Congo, con capitale Brazzaville, è governato da decenni da un ex generale, Denis Sassou Nguesso, che diventò presidente nel 1979. L’ex colonia francese è ricchissima di gas e petrolio, ma i congolesi sono molto poveri: secondo l’Onu, metà della popolazione deve sopravvivere con un euro al giorno. Il regime congolese è finito più volte sotto accusa, in Francia, Gran Bretagna e altri Paesi, per clamorosi casi di corruzione che coinvolgono le società petrolifere e la cerchia del presidente.

I tre italiani anonimi
Investigation
New scandal shakes Eni in Congo Brazzaville. Here's who is behind Marine XI giant gas field
11/4/2018
Marine XI è un giacimento sottomarino gestito dalla Soco, una società petrolifera quotata a Londra, in cordata con Petro Vietnam, un’altra grande azienda straniera, e con Snpc, la compagnia statale congolese, che si accontenta di una quota di minoranza. Nel marzo 2013 entra nell’affare una misteriosa società appena costituita. Si chiama World Natural Resources (Wnr) Congo ed è quella che ha comprato il 23 per cento per soli 15 milioni.

La Wnr Congo appartiene a quattro azionisti anonimi. La struttura di controllo è descritta nel grafico qui sotto. Le due società-cassaforte che possiedono il giacimento hanno sede alle isole Mauritius, un paradiso fiscale dove, come assicurano i consulenti dello studio Appleby, «la tassazione massima è del 3 per cento». Per identificare i titolari, bisogna risalire in cima ad altre tre piramidi di trust inglesi e società anonime sparse tra Nuova Zelanda e Dubai. Le carte rivelano che il primo azionista è un manager italiano del gruppo Eni, che controlla il 49,9 per cento insieme alla moglie. Il restante 50,1 è diviso tra due soci: un’altra signora italiana, che ha forti legami personali con il nostro ministero degli Esteri e con i vertici dell’Eni; e il dirigente inglese di varie società appaltatrici del gruppo italiano.

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Il manager targato Agip
Le due società-cassaforte delle Mauritius sono state create da Andrea Pulcini, un manager italiano con un curriculum di rilievo nel gruppo Eni. Dal 1994 al 2005 è stato tra i massimi dirigenti di Agip Trading Services Uk, la società-satellite che curava gli affari del colosso statale nella piazza strategica di Londra ed è stata poi assorbita nella casa-madre Eni, diventandone la divisione più importante. Nel registro delle imprese italiane Pulcini risulta tuttora procuratore (cioè rappresentante ufficiale) dell’Eni, in carica dal 1999. Gli atti non chiariscono se sia ancora stipendiato dall’Eni o da società estere collegate. Di certo Pulcini, come documentano i Paradise papers, ha una società personale a Dubai, la Energy Complex, che opera nello stesso settore dell’Eni: gas e petrolio. È questa ditta privata a comprare segretamente il giacimento in Congo. La tesoreria personale del manager invece è in Nuova Zelanda: si chiama Newton Trust e risulta gestita dai professionisti svizzeri della premiata ditta Tax & Finance (oggi sotto inchiesta a Milano per evasione fiscale internazionale a vantaggio di altri imprenditori italiani).

Il rappresentante dell’Eni, tra marzo e luglio 2013, aveva molta fretta di creare le società delle Mauritius, con cui all’inizio controllava tutta la Wnr Congo. Le sue azioni sono cointestate con la moglie, Rita M., che ora però risulta separata da lui ed era registrata dall’inizio come beneficiario «secondario», in subordine al marito. Comprato il giacimento, nell’ultimo giorno dell’anno Pulcini cede il 50,1 per cento a una società inglese con lo stesso nome, Wnr Limited, controllata però da altri due azionisti.

La signora del giacimento
Il 31 dicembre 2013, quando diventa comproprietaria della Wnr Congo, Maria Paduano, detta Marinù, laureata in legge, ma non iscritta all’albo degli avvocati italiani, ha 36 anni ed è conosciuta solo come organizzatrice di mostre in Africa e come moglie di Domenico Bellantone: un ambasciatore importante, che dal 2013 è il capo della segreteria particolare dei nostri vice-ministri degli Esteri, riconfermato dagli ultimi quattro governi. Con il gas africano, però, lui non c’entra. I documenti rivelano che è lei ad acquistare da sola, attraverso due società britanniche (create poco prima, nel 2012) la sua quota del giacimento.

A parlare ai magistrati milanesi di “Marinù”, in una strana divagazione messa a verbale sbagliando anche il cognome (“Patuano”), è Vincenzo Armanna, l’ex manager dell’Eni che oggi è tra i principali imputati nel processo per le maxi-tangenti petrolifere (oltre un miliardo) distribuite tra il 2011 e il 2012 in Nigeria. L’indagato, nell’aprile 2016, la segnala come «una persona vicina a Roberto Casula»: l’attuale Chief Development - Operations & Technology Officer dell’Eni, di fatto un numero due del gruppo. Casula aveva fatto carriera in Africa diventando un fedelissimo dell’ex amministratore delegato Paolo Scaroni. Armanna parla anche di «una mostra del 2011 sponsorizzata dall’Eni, con fotografie arrivate ad Abuja con un cargo diplomatico, che portò nell’ambasciata italiana tutte le persone importanti della Nigeria, che spesero mezzo milione di dollari». A organizzarla furono proprio Marinù Paduano e «Marta B. che è la moglie dell’allora capodivisione dell’Aise», i nostri servizi segreti militari. Il dato è confermato da un comunicato del ministero. Le due amiche hanno allestito insieme anche altre mostre tra Nigeria ed Egitto.

Detto questo, Armanna aggiunge che Casula e il nostro 007 sarebbero «amici di vecchissima data» e proprio loro avrebbero «spinto fortemente per la nomina a console onorario italiano di Gianfranco Falcioni». Un imprenditore trapiantato in Africa che nello scandalo Eni-Nigeria ha avuto un ruolo incredibile. Falcioni è il titolare di una società offshore che nel 2011 stava per incassare dal governo nigeriano, per motivi mai chiariti, l’intero miliardo di dollari pagati dall’Eni: un bonifico respinto dalla banca svizzera Bsi perché puzzava troppo di tangenti.?Tra tante frasi allusive di Armanna, un fatto certo è che la signora del giacimento è davvero legata a Casula: il top manager dell’Eni ha fatto anche affari con lei. Nel marzo 2016, in particolare, Maria Paduano compra un appartamento pregiato in centro a Roma: un attico di oltre 200 metri quadrati. Firmato l’accordo, però, la signora non fa il rogito notarile: cede il contratto preliminare al dirigente dell’Eni. Nel giugno 2017 Casula diventa così l’unico proprietario, siglando l’atto con i venditori originari. Nella sua scheda catastale, quindi, non compare il nome della mediatrice Paduano.

Domenico Paduano, fratello minore di Marinù, è stato assunto dall’Eni nel 2012: oggi lavora per la filiale in Mozambico della multinazionale italiana, ma ha la residenza in Gran Bretagna.

L’inglese di Montecarlo
Il quarto azionista segreto del giacimento Marine XI è un manager britannico con residenza nel paradiso fiscale di lingua francese. Si chiama Alexander Haly e dirige società di forniture per le industrie petrolifere. In Congo è l’amministratore esecutivo della Petro Services, che dichiara di lavorare per Eni e Total.

Quando l’organizzazione anti-corruzione Re:Common (la stessa che denunciò a Milano lo scandalo del petrolio nigeriano) ha chiesto di chiarire i rapporti con diversi fornitori, tra cui le società di Haly, l’Eni ha negato: «Non abbiamo alcun contratto con Petro Services né con Osm Group in Congo». Osm è un gruppo norvegese che ha creato una joint-venture con la società di Haly.

Agli azionisti dell’Eni, però, non è stata raccontata la verità. Haly infatti lavora da almeno dieci anni per il colosso italiano. Una serie di email documentano che la sua Petro Services già dal 2008 affittava navi commerciali all’Eni in Congo. E nel maggio 2009, per sollecitare il pagamento di quattro fatture mensili, il manager inglese scrive personalmente a Roberto Casula, che gli risponde così: «Caro mister Haly, la ringrazio di aver continuato a svolgere il servizio: Eni Congo risolverà il problema al più presto. Il nostro nuovo direttore è pienamente disponibile».

Haly ha rapporti ancora più stretti con altri dirigenti dell’Eni in Africa. Ernest Olufemi Akinmade è un ingegnere che ha lavorato per anni nella controllata nigeriana del gruppo italiano. Poi è diventato il braccio destro dell’ex ministro del petrolio Dan Etete: il protagonista della maxi-corruzione nigeriana addebitata a Eni e Shell. Nel 2011 fu proprio Akinmade a rappresentare Etete, dietro lo schermo di una offshore, nelle trattative finali per il super contratto da oltre un miliardo di dollari, poi spariti in un diluvio di tangenti. Ora si scopre che dal giugno 2014 all’aprile 2015 lo stesso Akinmade è diventato l’amministratore unico della Wnr inglese: la società-cassaforte di Haly e della signora Paduano, che ne erano stati direttori prima di lui, dal 2012 al 2014, oltre che azionisti.
L’inglese di Montecarlo inoltre è azionista e consigliere della Cap Energy, una società petrolifera britannica che in Africa occidentale ha assunto diversi ex dipendenti dell’Eni. Nel suo consiglio d’amministrazione, accanto a Haly, siede Pierantonio Tassini che dell’azienda è il capo operativo. Un manager italiano che ha lavorato all’Eni per più di 40 anni, occupando ruoli di vertice nel settore del gas in Africa e Medio Oriente. In azienda è considerato un fedelissimo di Claudio Descalzi, l’attuale numero uno dell’Eni.

La casella di Lady Descalzi
Petro Services Congo, la società di Haly che lavora per Eni e Total, è registrata a un indirizzo particolare: la casella postale 4801 di Pointe Noire, capitale economica del paese e primo porto commerciale. Esattamente la stessa casella è stata indicata come domicilio, per la gestione della società offshore Elengui Limited, dalla sua titolare: Marie Magdalene Ingoba, la moglie di Descalzi, che è cittadina congolese. Quando L’Espresso rivelò, grazie ai Panama papers, che la signora aveva versato 50 mila dollari, nel 2012, per aprirsi un’azienda esentasse alle Isole Vergini Britanniche, quella casella postale ha perso un cliente: Osm Congo, la società alleata di Haly, si è spostata dal box 4801 al numero 686, che corrisponde allo studio di un avvocato. Di regola una casella viene condivisa quando i titolari di diverse società hanno lo stesso consulente o fiduciario. La signora Descalzi ha dichiarato che la sua offshore, chiusa nel maggio 2014, non c’entrava con l’Eni.

L’Eni e le società di regime
La multinazionale italiana è presente in Congo fin dal 1968, ma ha acquisito un ruolo leader dagli anni Novanta, sotto la guida di Descalzi, che proprio qui iniziò a scalare le gerarchie aziendali, diventando nel 1994 il direttore generale della controllata locale. Oggi l’Eni estrae circa un terzo di tutto il petrolio congolese e ha superato anche la francese Total, che beneficiava del retaggio coloniale. Un sorpasso favorito da grandi scoperte di idrocarburi e da legami importanti. Jerome Koko, l’attuale direttore della compagnia petrolifera statale Snpc, si è laureato in ingegneria a Roma e nel 1984 è stato assunto dalla filiale dell’Eni in Congo, diventandone il direttore dopo Descalzi.

Il Congo francese è indicato da Transparency International come uno dei paesi più corrotti del mondo. In Francia, Portogallo, Italia e San Marino varie indagini giudiziarie accusano i big del governo africano di impadronirsi dei profitti del gas e petrolio attraverso società di comodo. Già nel 2005 l’Alta corte di giustizia inglese aveva incluso nella lista nera un’azienda, la Aogc (African oil & gas corporation), accusata di aver nascosto all’estero fondi pubblici per almeno 472 milioni di dollari. La Banca Mondiale inserisce tuttora quell’impresa tra le “società di regime” usate per sottrarre ricchezze alla popolazione congolese.

I Paradise papers ora mostrano che la Wnr Congo (la società dei tre italiani e dell’inglese di Montecarlo) ha comprato il 23 per cento del giacimento Marine XI proprio dalla Aogc. Un affare creato dal nulla in quattro mesi. Il 26 dicembre 2012 Aogc (che dal 2005 era già proprietaria del 10 per cento) compra un’altra quota del 26 per cento dalla compagnia russa Vitol. Il 25 marzo 2013 Aogc rivende il 23 per cento appunto, alla Wnr Congo, tenendo per sé una fetta di minoranza. Le carte delle Mauritius svelano che le offshore degli italiani hanno pagato esattamente 15 milioni e 90 mila dollari una quota che in realtà è contabilizzata per 430 milioni.

Dal 2014 la Aogc è entrata in società direttamente con Eni e Total. Un’operazione gestita dal governo congolese. Le due multinazionali avevano da anni le licenze per sfruttare molti giacimenti ricchissimi. Nel 2014 i permessi sono stati rinnovati, ma Eni e Total hanno perduto quote rilevanti. Che il governo ha riassegnato alla Aogc. Il gruppo italiano, in particolare, controlla quattro poli estrattivi (Foukanda, Mwafi, Kitina e Djambala), dove Aogc ha ottenuto quote che variano dall’8 al 15 per cento. Total gestisce altri tre giacimenti, di cui Eni è solo azionista. Qui il gigante francese ha rinunciato al 26 per cento, il gruppo italiano al 14: anche queste quote sono finite ad Aogc e ad altre due società misteriose. Le cifre pagate da Aogc per entrare in tutti questi giacimenti non sono mai state pubblicate.

La scoperta che il gruppo italiano era diventato socio di quella “società di regime” è stata al centro, nel 2015, di un duro scontro ai vertici dell’Eni, che ha contrapposto l’economista Luigi Zingales direttamente al numero uno Claudio Descalzi (vedi altro articolo a pagina 53). Nell’assemblea degli azionisti, alla domanda se Aogc fosse stata scelta dall’Eni o imposta dal governo congolese, Descalzi ha risposto così: «Non siamo stati noi a sceglierla». Il gruppo italiano, quindi, sembra aver subito un’imposizione del governo congolese.

L’Espresso ha però verificato che Eni e Total, negli stessi mesi, hanno ottenuto il rinnovo di quelle e altre licenze, che valgono miliardi, a condizioni molto particolari. Dopo diversi anni di attività, i vecchi permessi erano scaduti e il governo avrebbe potuto assegnarli alla società di Stato, come spiegano gli esperti consultati da L’Espresso. Invece, grazie a un decreto presidenziale, li ha riaffidati alle due multinazionali, in cambio di un «bonus». Ma ha inserito nell’affare anche la Aogc. All’epoca l’Eni dichiarò a L’Espresso di aver versato 22 milioni di dollari per il rinnovo delle sue quattro licenze. Nel bilancio di quell’anno, però, il bonus non compare. Solo nel bilancio del 2016 l’Eni ha dichiarato una cifra, che però è diversa: 8,6 milioni di euro per tre licenze (della quarta non si sa ancora nulla).

In teoria anche Aogc avrebbe dovuto pagare allo Stato la sua quota di bonus. E la cifra dovrebbe essere pubblicata, come prevede la legge congolese. In realtà non è mai stata divulgata alcuna cifra. Quindi, delle due l’una: o il governo congolese ha incassato il bonus senza dichiararlo, violando la sua stessa legge; oppure Aogc non ha pagato niente.

Tangenti, ville e champagne
Aogc ha sempre avuto legami strettissimi con il governo congolese. La società è stata fondata nel 2003 da Denis Gokana, che è l’attuale presidente dell’azienda petrolifera statale Snpc, nonché il consulente speciale per l’energia del presidente Sassou Nguesso. Secondo vari documenti, Aogc viene utilizzata da anni come cassaforte privata del regime. Già nel 2004 quella società petrolifera, come ha rivelato l’organizzazione Global Witness, ha pagato oltre 250 mila dollari per coprire le spese in alcune boutique di Parigi fatte da Christel Sassou Nguesso, figlio del presidente, che oggi è un dirigente della Snpc di Gokana. Un documento della polizia francese, ottenuto dai giornalisti di Mediapart, segnala un altro versamento bancario di 341.500 dollari, provenienti da Aogc e incassati nello stesso anno da un negozio francese di alta moda. La causale è scritta a mano: «Bonifico Sassou Nguesso + Bouya».

Jean-Jacques Bouya, cugino del presidente, è uno dei politici più importanti del Congo. Dal 2012 è il ministro del Territorio, che gestisce anche le grandi infrastrutture. Il suo braccio destro si chiama Dieudonné Bantsimba: è capo di gabinetto e direttore dell’agenzia per i grandi lavori (Dgtt). Proprio il suo ministero è al centro di un grande scandalo di corruzione scoperto dalla Procura di San Marino. Il primo processo si è chiuso nel gennaio di quest’anno con la condanna a sei anni di Philippe Chironi, un fiduciario francese accusato di riciclaggio di denaro a favore del regime congolese.

Chironi, che ha impugnato il verdetto in appello, gestiva una rete di società offshore che, secondo i giudici, hanno permesso alla famiglia Sassou Nguesso di trasferire in Europa almeno 83 milioni di dollari. Soldi sottratti alla popolazione congolese, dirottati su conti bancari a San Marino e quindi spesi per comprare di tutto: ville e appartamenti di lusso a Parigi e negli Emirati Arabi, casse di champagne, scarpe di coccodrillo, gioielli, orologi, marmi di Carrara e mobili della Brianza. Il fiume di denaro usciva dal Congo proprio attraverso la Dgtt: l’agenzia diretta da Bantsimba.

Lo stesso Bantsimba, dopo Gokana, è diventato azionista della Aogc, la società che è partner dell’Eni. Che paga i lussi del regime. E che ha svenduto il giacimento alle offshore degli italiani.

I documenti dei Paradise papers si fermano all’ottobre 2015, quando la società del giacimento Marine XI è ancora in mano ai tre italiani e all’inglese di Montecarlo. In quei mesi il gruppo svizzero Mercuria, che aveva prestato tutti i soldi, inizia a trattare l’acquisto delle offshore delle Mauritius. Gli atti però non chiariscono se gli italiani abbiano venduto e quanto abbiano incassato.

L’Eni ha sempre negato qualsiasi complicità con le maxi-corruzioni in Africa. Le scoperte sul Congo però ora spingono i ricercatori di Re:Common a preparare un nuovo esposto: «Nelle ultime due assemblee degli azionisti avevamo chiesto all’Eni delucidazioni sul Congo, ricevendone risposte elusive e fin troppo parziali. La verità sembra essere ben altra. Alla luce dei recenti sviluppi anche giudiziari, condividiamo la posizione dell’ex consigliere Zingales: per l’Eni serve un commissario esterno indipendente, con pieni poteri di indagine».