Il barbiere delle vanità. Il campo dei terroristi. Gli amori proibiti. Rock afghano e cucina siriana. E la controversa identità dell' "homo islamicus” sotto lo sguardo delle registe donne. A Firenze, dal 10 al 15 aprile, la nona edizione della rassegna “Middle East Now”.

Era ora. Dopo un profluvio di film e libri sulle donne islamiche, ricchi ed encomiabili ma ormai quasi un genere a sé, ecco che finalmente lo sguardo della macchina da presa e dell'obbiettivo fotografico si posa, fuor di retorica, indagatore, come non te l'aspetti, anche impietoso, sull'altra metà del cielo, nel senso della metà che comanda. Sull'uomo islamico. Arabo, persiano, afghano, sudanese. Vanitoso, eroico, gay, rockettaro. Sbandato. Integralista. Terrorista. Giovane e vecchio, padre e figlio. In patria, espatriato, intrappolato tra due patrie, senza patria.
Succede a Firenze, da martedì 10 a domenica 15 aprile, nona edizione del festival Middle East Now, come le precedenti per iniziativa di Lisa Chiari e Roberto Ruta, associazione culturale Map of creation: 40 film e documentari da 15 paesi del Medio Oriente, svariate anteprime italiane delle pellicole premiate nei principali festival internazionali, e mostre, musica, cibo, incontri: indagine sfaccettata e nel profondo di un mondo che sta ormai dentro il nostro, dopo essere stato per secoli il nostro doppio di volta in volta esotico, succube, minaccioso, mai davvero conosciuto.

[[ge:rep-locali:espresso:285313037]]

ET OMNIA VANITAS
Sì, ma nel senso più prosaico, niente a che fare con il cupo disincanto della frase nell'Ecclesiaste. Bisogna osservarli dal barbiere, questi uomini del Medio Oriente. Compìti, impomatati, la riga perfetta, sul viso la maschera color del fango, il cranio scolpito a stella, la barba cortissima che ridisegna il volto, l'opposto di quella lunga e incolta degli integralisti. Una guerra di codici estetici e valoriali fissata negli scatti di Tamara Abdul Hadi fotografa irachena assai nota anche come fondatrice, insieme a Tanya Habjouqa, Tasneen Alsultan e altre, del Collettivo di fotografe donne in Medio Oriente. People's salon, s'intitola il progetto in mostra, e i volti sono il punto di partenza di una mappa delle rappresentazioni dell'identità maschile nel mondo arabo. Un'identità costruita fra stereotipi, ribellioni, contraddizioni. E catturata dalla fotografa in uno spazio principe della socializzazione in quella parte di mondo, i saloni dei barbieri, appunto. Che sia una donna a farlo non stupisce: in fondo non c'è da contare molto sullo sguardo introspettivo maschile. Così anche per i film.


IDENTITA' FRATTURATE
Donna è infatti Ayse Toprak, regista turca che in Mr. Gay Syria va a scandagliare quel groviglio di identità scomposte, conflittuali, censurate, represse e liberate che segna la vita di due rifugiati siriani: Husein, barbiere a Istanbul, e Mahmoud, fondatore del movimento gay in Siria, riparato a Berlino. Suona un po' Bollywood l'escamotage della narrazione, il sogno di entrambi di partecipare al concorso di Mr. Gay World, ma è acuto il lavoro sullo sdoppiarsi e il lacerarsi delle identità.
Si accavallano invece e si raddoppiano, le identità, in Muhi Generally Temporary, lungometraggio di Rina Castelnuovo-Hollander e Tamir Elterman: è la storia, vera, di Muhi, ragazzino di Gaza, brillante, coraggioso, arabo, ma sospeso tra due patrie e due popoli. Senza gambe né braccia per via di una malattia autoimmune, accolto da piccolissimo in un ospedale israeliano, lì vive da sempre con il nonno in situazioni paradossali, conquistandosi il cuore di tutti, ebrei e palestinesi. In tempi di odio religioso e identitario, assalti ai confini e morti ammazzati, è quello che si chiama “un messaggio di speranza”.
Quando invece, senza essere obbligato, te la puoi scegliere una patria, capita che tu non sappia che fare. Succede ai tre amici protagonisti di Before summer ends di Maryam Goormaghtigh, iraniana cresciuta in Svizzera: due settimane in viaggio per capire se restare in Francia o tornare in Iran, altra ricognizione sul maschio islamico ma stavolta espatriato in un Occidente complicato e seducente. Identità sospese, tutte da definire.


PADRI E FIGLI: L'ESTRANEO
L'identità si costruisce e ridefinisce anche nel passaggio tra le generazioni: allontanamento, confronto, forse riscoperta. Questo narra Wahib, il più recente film della regista palestinese Annemarie Jacir, una delle più note voci del mondo arabo. La storia è presto detta: un figlio architetto espatriato a Roma torna dopo molti anni a Nazareth per aiutare il padre a consegnare a mano le partecipazioni di nozze dell'altra figlia, secondo la tradizione detta Wahib. Vite diverse, lontane e in contrasto, di due estranei, sul filo dell'ironia. Nella strepitosa interpretazione di Mohammad e Saleh Bakri, star del cinema arabo: che sono padre e figlio anche nella vita.
Il film esce nelle sale italiane ad aprile, una settimana dopo l'anteprima al Middle East Now. Alla regista Annemarie Jacir è dedicata, al festival, anche la retrospettiva Director in focus: in programma When I saw you del 2012, Salt of this sea del 2008, Like Twenty Impossibles,primo corto palestinese selezionato a Cannes, nel 2003.


PADRI E FIGLI: IL TERRORISTA
Non sempre il passaggio generazionale è foriero di scontri e conflitti, ma è triste rilevare come talora la continuità sia proprio nel segno del peggio. In una cultura come quella araba ove, in una sorta di patronimico all'incontrario, quando ha un figlio un uomo cambia nome e diventa Abu (padre) seguito dal nome del figlio, se il tuo idolo è Osama bin Laden, chiamerai Osama tuo figlio, e tu diventerai Abu Osama. Non è un esempio a caso, ma la storia vera del leader islamista radicale di Al-Nusra, la costola siriana di Al-Qaeda. Idolatrato dai giovani che lo seguono e con lui combattono. A capo dei quali c'è suo figlio, Osama, per l'appunto. Il film, crudo e a suo modo disperante, è Of father and sons. Il regista è quel Talal Derki, siriano, che scioccò nel 2014 con il suo Return to Hom, e che ora s'è finto un fotoreporter simpatizzante di Al-Qaeda per ritrarre il capo di Al-Nusra e documentare la vita dei suoi giovani jihadisti in un campo di addestramento.
Il passaggio precedente, come si diventa un estremista islamico, lo indaga Iman, della regista sudanese Mia Bittar: quattro storie di giovani di differenti ambienti sociali e formazione che per diverse ragioni e circostanze e casualità scivolano nell'integralismo radicale e in scelte di vita estreme. Prodotto dal United Nations Development Programme Sudan, vi recita anche il giovane cantante di Aswat Elmadina, la più nota band sudanese.
Il passaggio successivo nella vita di un estremista, invece, ovvero cosa può succedere nella testa di un attentatore suicida (una donna, in questo caso), quando infine si trova di fronte al gesto definitivo, uccidersi per uccidere, lo scopri nella potente pellicola irachena The journey di Mohamed Jabarah Al-Daradji: alla stazione di Baghdad, obbiettivo dell'attentato, un incontro inaspettato spinge la protagonista a rimettere tutto in discussione all'ultimo istante. In qualche caso è capitato davvero. Non molto spesso, in verità.


AFGHAN HEAVY METAL
La musica è figlia di Satana, quella occidentale è in blocco un subdolo strumento del “Grande Satana” americano, figuriamoci l'heavy metal. Per mettere in piedi un band metal a Kabul, dove l'integralismo e il fanatismo religioso impregnano l'aria e impugnano kalashnikov, bisogna dunque essere o dei rivoluzionari senza paura o degli appassionati al limite della pazzia. Come appunto i fratelli Qasem e Pedram Foushanji, i due leader fin dalla formazione della band nel 2008; ma, come dicono, «se non potessimo esprimere noi stessi, dar voce a ciò che siamo, saremmo già morti». Si esibiscono in una Kabul di attentati, bombe, crateri, morti ammazzati, e anche all'estero da quando la loro fama ha valicato i confini. Quello che sono e come lo sono diventati lo racconta nel documentario Rockabul il regista Trevis Beard, che non solo li segue e li riprende dalle origini ma ha avuto un ruolo chiave lungo tutta la loro non sempre agevole storia.


GUERRA E CIBO
Immancabile al festival l'escursione culinaria, come ogni anno. Ma stavolta si parte dallo schermo. Soufra, regista l'americano Thomas A. Morgan, produttore esecutivo l'attrice Susan Sarandon, racconta l'avventura e il successo imprenditoriale di Mariam Shaar, rifugiata palestinese in Libano, e della sua società di catering, Soufra che in arabo sta per tavolo pieno di delizie. Favola vera e a lieto fine sul cibo che sana le ferite della guerra, gioca di rimando con l'altra iniziativa culinaria del Middle East Now di quest'anno, Our Syria, recipes from home. Libro, innanzitutto: delle due gourmet Dina Mousawi e Itab Azzam, che per mesi hanno vagabondato tra le donne siriane, rifugiate in Europa e in Medio Oriente, a caccia di storie e di ricette di una delle culture di cibo più ricche, quella siriana, perché da secoli crocevia di sapori, spezie, culture e tradizioni dell'est e dell'ovest. Aperitivo con delizie siriane il 12 e cooking lesson sabato 14 delle due autrici, presenti al festival. Non basta a esorcizzare la tragedia siriana senza fine né pretende di farlo, ma rivendica almeno, sul terreno del cibo, un'identità che la storia e la guerra stanno irrimediabilmente distruggendo.


ARABIA FELIX, MAYBE
Due anni fa, dall'Arabia Saudita, ci avevano stupito il regista Mahmoud Sabbagh e l'attor comico Hisham Fageeh con la loro commedia romantica Barakah meets Barakah, innamoramento di un impiegato per una blogger nel paese più chiuso del mondo, con critiche esplicite alla vigente oppressione sui costumi e i diritti, in primo luogo delle donne. I due, che vivono a Jeddah e Riad, sostenevano ottimisti: «Il futuro è aperto e la partita tutta da giocare», ma era duro crederlo. Lo è meno ora, dopo la svolta di MbS, Mohammed bin Salman, l'erede al trono e nuovo padrone del paese, che ha avviato aperture e riforme prima impensabili.
In questa edizione sono due filmakers tedesche, Stefanie Brockhaus e Andreas Wolff, a raccontarci in  The poetessla storia di Hissa Hilal, la poetessa e attivista quarantatreenne saudita moglie di un giornalista diventata famosa per aver utilizzato il palcoscenico televisivo del più noto talent show degli Emirati per attaccare in versi il fanatismo jihadista e le fatwa degli imam che schiacciano e sviliscono le donne. Con un occhio, molto occidentale, alle leggi della spettacolarizzazione mediatica, del business pubblicitario, della dolce vita da jet set negli Emirati: come nella scena in cui una concorrente impazza nella scelta di costosissime provocanti scarpe col tacco per poi coprirsi con la veste nera da capo a piedi.


RETROSCENA DI UNA PACE A META'
La foto è notissima e in tutti i libri di storia: Yitzhak Rabin, primo ministro di Israele, e Yasser Arafat, leader dell'Olp, si stringono la mano a Oslo il 13 settembre 1993, in mezzo a loro il presidente americano Bill Clinton nel gesto di abbracciarli entrambi. Sembrava fatta, la pace, qualche passo ancora e il conflitto arabo-israeliano sarebbe stato archiviato. Non è stato così, ma gli accordi di Oslo (in virtù dei quali l'anno appresso l'Olp diverrà Anp, Autorità nazionale palestinese, rinunciando al terrorismo e riconoscendo l'esistenza dello stato di Israele) segnano comunque una svolta nelle relazioni israelo-palestinesi. Come si è giunti a quella stretta di mano e alla firma di quei protocolli lo racconta, con dovizia di retroscena e filmati d'archivio mai visti prima, il documentario Oslo Diaries della regista israeliana Mor Loushy: negoziatori segreti e apparentemente improbabili, per tutto l'anno 1992 e parte del '93, erano due professori israeliani e tre membri dell'Olp, tra radicate diffidenze, battute d'arresto, complicazioni per l'aggravarsi della situazione politica e una volontà di pace perseguita con tenacia. Che non sembra essersi ripetuta negli anni a venire.


GANGS OF TEHERAN.
Sei anni fa tessono un'improbabile amicizia il regista iraniano Hesam Islami e Ehsan, capo di una gang che prova a rubare la sua auto. Islami comincia a seguire le loro scorribande per le vie della capitale, tra furti, rapine e scontri con gang rivali. Ne esce questo 20th Suspect Circuit, che disegna un Iran alieno all'oleografia ufficiale del regime, dove non funziona più neppure lo scambio tra repressione della libertà e sicurezza.
Ma la riflessione più amara, più dura, più lacerante, e più pericolosa per il regime, è quella che di nuovo una donna, Maryam Ebrahimi, mette in scena nel suo docufilm Stronger than a bullet. A narrare, con addosso tutto il senso di colpa immaginabile, è Saeed Sadeghi, fotografo per gli otto anni dell'insensata guerra Iraq-Iran dall'80 all'88, che provocò quasi un milione di morti iraniani e almeno mezzo milione tra gli iracheni. Molte delle sue foto vennero allora usate dalla propaganda di regime per spingere i giovani, persino i bambini, al martirio. «Credevo, credevamo allora, fosse giusto uccidere, morire e mandare a morire in nome di Allah e dell'imam Khomeini», racconta Sadeghi nel film. Oggi fa i conti con quelle sue certezze di allora, che devastarono un'intera generazione. Si sente responsabile. Cerca i sopravvissuti. La domanda è l'unica insostenibile per il potere teocratico tuttora saldo tra una rivolta e una repressione: come abbiamo potuto farlo? a che cosa è mai servito?