Time in Jazz: non solo una manifestazione di qualità, ma un modello di accoglienza
I Festival più significativi d’Europa - Italia e isole comprese - raccontati dal nostro inviato. In questa puntata, Time in Jazz, la rassegna diretta da Paolo Fresu, uno dei più grandi trombettisti del mondo che si è svolta a Berchidda dal 8 al 16 agosto. Ecco la nostra pagella
Paolo Fresu con il flicorno e il tunisino Dhafer Youssef allo oud su una piattaforma galleggiante ancorata nella pischera di San Teodoro mentre alla luce del tramonto intrecciano improvvisazione jazz e canto devozionale sufi accompagnati dal canto degli uccelli. Enrico Rava, prossimo ormai agli ottant’anni che torna ad innamorarsi del suo strumento regalando il concerto più intenso realizzato da molto tempo a questa parte. L’esercito di volontari dagli undici ai settant’anni che ci mettono anima, competenza e fatica perché tutto funzioni a puntino. I concerti nei luoghi naturali e nelle chiesette campestri con i musicisti a due passi dal pubblico ad accompagnare i tramonti e le albe tra i campanacci delle greggi e il soffio del maestrale. La festa di Ferragosto a San Michele con più di mille persone all’ombra degli olivastri a condividere cibo (la mitica zuppa berchiddese a base di brodo di pecora, pane e formaggio), fiumi di Vermentino e musica, nel segno di un’ospitalità che affonda radici nella Grecia dei poemi omerici. Sono molti i suoni, i volti e le immagini che riportiamo da questa XXXI ma edizione (8 - 16 agosto), scandita in 36 concerti e dalla presenza di oltre 40 mila spettatori giunti da ogni parte del mondo.
PAGELLA (voti da 1 a 5) Location naturali ????? Accoglienza ????? Programma ????? Workshop e attività didattiche ????? Impatto ambientale ????? Qualità acustica ???? Comunicazione e portale web ?????
SENTIRSI PARTE DI UNA COMUNITA’ Come ha sottolineato il regista Gianfranco Cabiddu, impegnato dal 1994 con i suoi giovani allievi a preservare la “memoria visiva” della manifestazione: «Quello che differenzia Time in Jazz da ogni altro festival è qualcosa che succede di rado: a Berchidda si respira un’aria da adunata tra complici». Sono bastati anche a noi pochi giorni in effetti, per avvertire quel senso strano e meraviglioso di fare parte, tutti, di una stessa comunità unita dalla musica: artisti e pubblico, staff tecnico e popolazione locale, l’impiegato e il cuoco, volontari e giornalisti.
QUEL CHE LA MUSICA PUO’ FARE Eppure, quella di far diventare Berchidda un luogo attrattivo, nel 1988, quando tutto ebbe inizio, dovette sembrare a molti una scommessa folle. Il paese (meno di 3 mila abitanti) è nell’interno dell’isola, a poca distanza dalla statale che collega Sassari a Olbia e non ha alcuna vocazione turistica. «L’unica Sardegna conosciuta, all’epoca era quella del mare. Questo era ancora un posto di pastori e contadini, non esisteva neppure un vero e proprio centro storico», racconta Fresu. Serviva un progetto che giustificasse la presenza di un festival in luogo del genere. «Obiettivo, oltre quello di raccontare il jazz da un altro punto di vista, il mio, è stato fin da subito quello di fare di Berchidda un luogo dove succedessero cose che non accadono altrove». È apparso subito chiaro nel corso della presente edizione come lo spirito originario sottenda ancora la filosofia di un festival che crede nella ricerca e nell’apertura verso il mondo, pur avendo le radici saldamente piantate nel territorio. La musica intesa come motore di sviluppo capace di attrarre il turismo, qui è diventata uno strumento per valorizzare la bellezza e l’identità dei luoghi in cui prende forma e la si ascolta. Per questioni di sostenibilità ambientale e ridurre l’impatto del festival sul territorio quasi tutti i concerti nei “teatri” all’aperto sono alimentati da un impianto fotovoltaico mobile. Peppino Impastato nel film “I cento passi” sosteneva un concetto analogo: «Invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte le manifestazioni e ‘ste fissarie bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza, aiutarla a riconoscerla e a difenderla».
BERCHIDDA È UN PALCO SPECIALE E allora a Berchidda può succedere, come ha scritto il celebre trombettista ne “La musica siamo noi”, il suo canto d’amore per il jazz e per il festival, ma in realtà succede ogni volta, che qui i musicisti si sentano chiamati a dare di più. Proprio perché a convocarli è Fresu, un musicista che stimano, perché parlano la stessa lingua e poi perché qui, come sottolinea il chitarrista Francesco Diodati, una delle rivelazioni di questa XXXIma edizione «a differenza di altri festival più istituzionali, ci si sente liberi di prendersi dei rischi e dunque stimolati a dare il massimo senza risparmiarsi ad ogni performance». Così può succedere che i Fanfaraï, la formazione franco-magrebina che ha punteggiato le dieci giornate del festival sfilando nelle strade con la sua tradizionale parata di derbouka, guellal, oud e guenbris, l’ultima sera si presenti sul palco con una sezione di ottoni tirata a lucido, una ritmica armata di tastiere, basso e batteria ed estragga dal cilindro, anzi dal turbante arrangiamenti all’altezza delle più blasonate big band. Scopri allora che Duke Ellington e la musica raï algerina, le congas cubane e i ritmi trance degli gnawas possono andare felicemente a braccetto fino a fondersi in una festa creativa che alla fine trascinerà sul palco lo stesso padrone di casa, il trombonista Gianluca Petrella e gli altri musicisti che si aggiungono alla Fanfaraï Big Band, per dar vita una jam session che si protrarrà fino all’alba.
IL JAZZ CHE GUARDA AL FUTURO Nei giorni precedenti, dal medesimo palco sono stati i Rava Tribe con Petrella, Giovanni Guidi al piano, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria; lo svedese Nils Landgren con l’esplosiva Funk Unit; il sassofonista di Chicago Steve Coleman con i Five Elements e il tunisino Dhafer Youssef artefice con la sua band di uno speziatissimo e travolgente mix di jazz e sonorità mediorientali ad accendere le notti di Berchidda. Ma, come dicevamo, è soprattutto nei concerti negli scenari naturali, con il pubblico impegnato tre volte al giorno (mattina, pomeriggio e sera) in una transumanza per raggiungere luoghi di massimo culto e bellezza distanti non di rado decine di chilometri, che trovano spazio le produzioni più originali e di tendenza. Blackline, il recente progetto in trio di Francesco Diodati (chitarra), Stefano Tamborrino, uno dei più innovativi batteristi del momento (alle percussioni) e la formidabile Leila Martial (voce ed elettronica) è fra quelli che ci hanno maggiormente colpito per la libertà priva di compromessi con cui i tre hanno mostrato di saper coniugare tradizione e linguaggi contemporanei. Del resto, che anche in Italia si stia affacciando alla ribalta una nuova generazione in grado di rinnovare profondamente il linguaggio del jazz affidandosi all’elettronica e a una nuova, rivoluzionaria concezione del ritmo ha trovato conferma in diversi altri appuntamenti. Pensiamo al trio composto dal vibrafonista Pasquale Mirra, dal chitarrista Gabrio Baldacci e da Vincenzo Saetta al sax (altra produzione originale del Festival), al nuovo quartetto di Evangelista e soprattutto ai quattro set curati dall’instancabile Petrella sotto il titolo “Time is Over” che hanno accompagnato le notti del dopo festival a Berchidda. Progetti ricchi di groove, di elettronica, ritmiche afro, ma anche di rap e di scratch con cui il trombonista assieme ad ospiti di volta in volta diversi ha provato a tracciare le coordinate del jazz a venire.
UN FESTIVAL POLITICO Non di sola musica e non esclusivamente di jazz vive però questo festival. Che negli anni il padrone di casa ha articolato come un percorso di formazione sentimentale oltre che sociale e politica. Rievocando le gesta di Giosafatte, il sacerdote biblico che fece crollare le mura di Jericho con uno squillo di tromba, Fresu ha seminato il terreno di progetti come “Habitat Immaginario” gestito del team di “Theatre en Vol” che affrontano il tema della convivenza tra diversi e con altre numerose iniziative (incontri, seminari) atte a risvegliare la consapevolezza necessaria per abbattere le barriere dell’intolleranza che avvelenano l’attuale dibattito pubblico e gettare le basi di un mondo inclusivo, ospitale e accogliente. E mentre il Viminale chiude i porti per bloccare i migranti Fresu nella serata finale offre la cittadinanza onoraria di Time in Jazz a due giovani profughi scampati al naufragio, provenienti rispettivamente dal Mali e dal Ghana che hanno partecipato qui a Berchidda al progetto “Street Art” di Habitat Immaginari: «Il nostro festival premia così questi ragazzi che non hanno avuto come noi il privilegio della libertà». Un gesto politico che non ha bisogno di troppi commenti. E alla fine ancora Fresu sul palco, al tempo stesso officiante e sposa, che ringrazia uno ad uno citandoli con nome e cognome: artisti e volontari, addetti alla logistica e impiegati, i sindaci dei vari Comuni e gli sponsor, tecnici di palco e i ragazzi di TJ Cinema che con i loro “Day by Day” postati anche sul portale di Facebook, hanno permesso a tutti di rivedere i concerti e le emozioni di ogni giornata. «Perché tutti sono importanti e nulla di tutto ciò sarebbe possibile se l’intera comunità non si fosse stretta attorno al festival». Ed è questo forse il motivo che spinge migliaia di persone dopo più di trent’anni a tornare ogni volta più numerosi.