Il terrorismo jihadista e la desertificazione assediano il Ciad, paese africano fra i più poveri del mondo. Qui la sabbia avanza, pescatori e contadini non hanno da vivere. E vengono reclutati dagli islamisti (Foto di Marco Gualazzini per L’Espresso)

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La piroga a motore fende le acque del Lago Ciad, satrapia di Daesh in terra d’Africa; i soldati dell’esercito regolare mettono il colpo in canna nei kalashnikov e con i loro occhi a scimitarra scrutano gli acquitrini e le rive delle isole che punteggiano il bacino lacustre. «Ici c’est vraiment très dangereux, qui è davvero molto pericoloso. Questa zona è in mano ai terroristi: si nascondono sulle isole e fanno razzie e stragi. La loro guerriglia sta martoriando la popolazione», spiega il capitano Affeni.
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Il sole brucia, le zanzare tormentano, il riflesso della luce sull’acqua acceca, le temperature superano i quarantacinque gradi: poi, dopo ore di navigazione, una spiaggia brulla. L’imbarcazione penetra nel piccolo strato di fanghiglia e limo che separa l’acqua dalla terraferma. L’isola raggiunta è quella di Gomirom Domou, dove vive Halima Adama, una donna di vent’anni, attentatrice di Boko Haram: sola kamikaze, di cui si ha notizia, ad essere sopravvissuta, dopo la deflagrazione, ad un attentato in cui avrebbe dovuto essere vittima e carnefice, stragista e martire.
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È seduta su una stuoia di rafia nella piccola capanna di paglia e frasche in cui vive e le cicatrici tradizionali del popolo Boudouma le percorrono le guance come lacrime gemelle. Guardarla, ascoltarla e addentrarsi nel suo passato provoca paura. E anche il conforto della ragione, estremo appiglio cui ancorarsi, viene meno quando ci si immerge nella sua vita, che i pii rigoristi sunniti, votati al Califfato, hanno trasformato nel simbolo per antonomasia dell’incubo contemporaneo.
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La donna ha un nome, ma nessuno lo pronuncia o, forse, nessuno se lo ricorda, perchè per tutti oggi lei è: ‘’la kamikaze’’. «A dodici anni sono stata data in sposa a un uomo: un pescatore. Il mio fu un matrimonio forzato. Un giorno mio marito mi disse che saremmo andati su un’altra isola, dove la pesca era più redditizia e partimmo; invece mi portò dai terroristi di Boko Haram».
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Il racconto non fa prendere fiato e trascina in un incubo, popolato però di uomini reali: «Per un anno ho vissuto insieme alle altre donne. Un imam ci obbligava a leggere il Corano dall’alba sino al tramonto; intanto, mio marito era diventato un combattente. Un giorno venne a trovarmi e mi comunicò di avermi designata per diventare una kamikaze: così sarei andata in paradiso. Io ero sconvolta, i capi mi convocarono e mi dissero quale sarebbe stata la mia missione. Non potevo oppormi, altrimenti mi avrebbero uccisa. Per diversi giorni mi preparano all’azione, mi drogavano facendomi delle iniezioni e mi dicevano che dovevo essere felice perchè stavo esaudendo il volere di Allah. Il giorno dell’attentato però, sebbene fossi drogata, non mi legai la cintura esplosiva sul corpo, ma la misi nella borsa; avevo troppa paura di morire! Ero con un gruppo di altri 7 terroristi e dovevamo fare una strage nel mercato di Bol. Quando fummo a tre chilometri dalla città i comitati di autodifesa ci intercettarono: ricordo gli altri jihadisti che immediatamente innescarono le cinture, ricordo le esplosioni, ma da quel momento più nulla; mi svegliai ore dopo in ospedale e senza gambe».
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La storia dell’ex attentatrice è paradigmatica per comprendere l’orrore che si sta consumando nel bacino del Lago Ciad, dove dal 2014 è in corso uno dei peggiori disastri umanitari contemporanei e in cui due fattori, la guerra del terrore condotta da Boko Haram e la desertificazione del Lago si sono uniti in un sodalizio di distruzione, provocando una tragedia che oggi, stando ai dati dell’Ocha (Ufficio della Nazioni Unite per gli Affari Umanitari), ha causato 2,3milioni di profughi, 10 milioni di persone che vivono nel bisogno e 500mila bambini malnutriti.
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La superficie del lago si è ridotta del 90% rispetto gli anni ’60 a causa dell’aumento della popolazione, dell’avanzata del deserto e dalla costruzione di alcune dighe sui fiumi immissari e la guerra degli uomini di Shekau ha fatto di questa regione un fortilizio del terrore. Quattro i Paesi toccati: Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Ed è in quest’ultimo che la crisi si esibisce in tutta la sua spietatezza. Nello stato di Idriss Deby, 183esimo Paese nell’Indice di Sviluppo Umano su 187 nazioni, dove l’analfabetismo è oltre il 50%, la speranza di vita media supera a fatica i 53 anni, i tassi di mortalità infantile sono tra i più alti del pianeta e l’economia è in crisi, a causa del crollo del costo del greggio, lo jihadismo e l’avanzata del Sahara stanno falcidiando senza clemenza la popolazione.
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«La desertificazione del lago e la guerra di Boko Haram sono due volti della stessa medaglia. Pescatori e contadini che non hanno più di che vivere vengono assoldati dai terroristi che promettono soldi, cibo e gloria. Il terrorismo sfrutta l’ignoranza e la disperazione della gente e, finchè ci sarà miseria, ci sarà il terrore». A parlare è il professore Ahmat Yacoub, presidente e fondatore del Centro di Studi per lo Sviluppo e la Prevenzione dell’Estremismo, la prima realtà in tutto il Sahel che mira a combattere lo jihadismo e il proselitismo islamista attraverso un lavoro di sensibilizzazione e informazione culturale. E per rendersi conto di quanto descritto dal presidente basta lasciare la capitale del Ciad, N’Djamena, dove ha sede il centro, e dirigersi a Bol, il più importante villaggio rivierasco.

Qui il sole è feroce e incendia, con una luce che appartiene più alla morte che alla vita, ogni granello di sabbia lungo le piste del deserto. Tutto è bianco, arso e ha i contorni di un’immensità senza fine, eterna. Le genti che si incrociano trascinano corpi ossuti e si muovono come ombre avvolte da sudari di polvere. Hanno volti prosciugati, schiene piegate, occhi incendiati dalla paura: sono come statue di cera plasmate nell’altoforno della miseria. E l’ospedale di Bol, l’unico di tutta l’area, è il luogo in cui la disperazione si mostra in tutta la sua spietatezza. Varcata la soglia del nosocomio, ecco pazienti assiepati in ogni dove.
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Non sono volti, ma teschi ricoperti da una sottilissima sindone di pelle d’ebano quelli che si incontrano: i denti eburnei, gli occhi infossati, le ossa visibili. «Manca tutto: attrezzature, mezzi e personale. Qui siamo solo tre medici a lavorare», spiega il direttore generale Mahmat Hassan, che prosegue: «Con l’arrivo di Boko Haram la situazione è diventata devastante. Ai problemi con cui da sempre ci troviamo a fare i conti, se ne sono aggiunti altri che prima non c’erano: gli stupri, i traumi psicologici. Per non parlare dell’Hiv, che si sta diffondendo in modo rapido ed esponenziale». Il direttore dell’ospedale raccoglie dall’intimo della sua memoria una storia di pura tragedia: «Una bambina ha visto sgozzare suo padre davanti ai suoi occhi. Poi è stata stuprata dai miliziani islamisti ed ha contratto l’hiv. Ha quindi ingerito dei chiodi per suicidarsi. L’ho operata e oggi è sotto trattamento. Queste sono le storie che affrontiamo ogni giorno. Vi è chiaro?».
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E l’orrore sembra aver lasciato le sue orme nelle sabbie che da Bol arrivano sino a Baga Sola, dove c’è la tendopoli di Kurfa, in cui da tre anni 5mila persone vivono in capanne fatte di rami secchi, nascoste da una coltre di sabbia che, come un velo di nebbia, le occulta al mondo. È questa un’umanità imbottigliata in una clessidra di arena ardente che non fugge, non scappa, non sbarca e quindi non fa parlare di sè, come se non esistesse. Alcuni uomini sono seduti fuori da una capanna, osservano l’infinito di cui sono prigionieri, hanno i volti coperti da turbanti bianchi, per proteggersi dalle frustate di sabbia e vento, e i loro occhi sottili, puntati nel vuoto, setacciano la memoria, alla ricerca di ricordi ormai confinati in un passato perduto per sempre. Mahamat Issa, un rifugiato di 50 anni, spiega che sono fuggiti dagli islamisti e quello che hanno oggi sono solo dei rami sotto cui vivere e pochi tozzi di pane. In una capanna vive Celou Al Hadji: ha dieci anni e zoppica aggrappata a delle grucce. La madre un anno fa la mandò al mercato per comprare una manciata di riso e in quel momento un kamikaze si fece esplodere. La bambina perse una gamba e oggi vive in una tendopoli, sola, con la sorella più piccola e la madre che non si perdona di averla mandata quel giorno al mercato.

Il sole sta calando: alcune donne avvolte in vesti colorate mettono delle pentole sul fuoco, fanno bollire delle zuppe fatte con tanta acqua, rimasugli di ossa di pollo e granitici tozzi di pane. Acqua e pane: l’eterna comunione degli ultimi, dei perseguitati, dei fuggiaschi dei condannati; è così che madri, padri e figli provano a colmare il vuoto delle proprie pance: con l’essenziale e con le preghiere. Un cammelliere interrompe l’armonia dell’orizzonte e, su una piccola duna, un’intera famiglia è rivolta verso oriente e si genuflette prostrandosi e invocando Allah.

Chissà se almeno il loro Dio li ascolta e chissà se almeno per il loro Dio queste genti esistono.