Rapite da Boko Haram. Schiavizzate dall’Is. Vittime di una catena infinita ?di violenze. Storici e studiosi spiegano perché il potere si sfoga su di loro

Una donna che indossa il velo integrale
Il filmato risale a metà anni Cinquanta in Egitto. Gamal Abdel Nasser, l’animatore del gruppo dei giovani ufficiali che detronizzarono il re, poi presidente del Paese e simbolo del nazionalismo panarabo parla davanti a un’assemblea. Gli brillano gli occhi come se stesse raccontando una barzelletta e la voce assume un tono ironico, quando dice: «Ho parlato con il capo dei Fratelli musulmani. Gli ho chiesto cosa vuole. Mi ha risposto: “vogliamo che tu imponga il velo alle donne”». Nasser tace per un attimo e spiega: «Ha chiesto che tutte le donne egiziane vadano in giro velate». Si sentono le risate del pubblico e qualcuno che commenta: «Se lo metta lui, il velo».

Ma allora, cosa è successo durante i sessant’anni passati da quel discorso? Come mai oggi, nel mondo arabo e musulmano il velo sembra un segno del tutto naturale (come da noi il presepe) della tradizione e dell’identità; mentre per molti è tuttora (come lo era per Nasser) simbolo e strumento di sottomissione? Come mai il processo di decolonizzazione non è andato a pari passo con quello dell’emancipazione femminile? Detto brutalmente: oggi le donne, il loro corpo, sono l’oggetto e la posta in gioco di una guerra. Di quel conflitto che verte sull’esigenza, maschile e patriarcale, di controllare e perfino annientare (simbolicamente ma anche fisicamente) il corpo delle donne, si può tracciare addirittura una mappa geopolitica: dalle donne yazide vendute come schiave; alle ragazze nigeriane rapite dai militanti di Boko Haram; alle indiane stuprate perché “troppo indipendenti”, fino alle donne bosniache musulmane violentate negli anni Novanta, sotto i nostri occhi, in mezzo alla nostra Europa, dai maschi cristiani ortodossi perché portassero nel grembo il seme del boia e perché davvero partorissero nel dolore.

Il viaggio nella geopolitica di una guerra contro il nostro lato femminile (anche quello dei maschi, che ne hanno molta paura), comincia con Bruno Nassim Aboudrar, professore di Estetica alla Sorbonne Nouvelle di Parigi e autore di “Come il velo è diventato musulmano”, appena pubblicato da Raffaello Cortina editore. Dice Aboudrar: «Da quando il nazionalismo arabo è fallito - a causa della corruzione dei leader; per effetto della vittoria d’Israele nella guerra del 1967; per la delusione con la politica sempre filoisraeliana dei Paesi occidentali - agli arabi e ai musulmani non è rimasto altro che tornare verso l’unica alternativa conosciuta. Quell’alternativa è la religione, nel senso oscurantista».

Aggiunge: «La fede riscoperta ha qualcosa di nostalgico. Ma la nostalgia non riproduce la storia, la nostalgia è invece l’invenzione di un passato modellato sul nostro sogno del futuro». In concreto: quel futuro e il presente, secondo Aboudrar, hanno le caratteristiche di una guerra in cui il corpo della donna è strumento, ma anche obiettivo. Una guerra che ha proprio lo scopo di annientare l’immagine della donna. Spiega: «Guardiamo le foto - ce n’è una anche nel libro - di donne totalmente velate e vestite di nero, dove è impossibile intravedere il corpo, il volto, la luce degli occhi o la forma delle mani. Sono immagini che negano l’immagine stessa e dove la donna non è più donna. Ebbene, queste immagini seguono la stessa logica della distruzione della città di Palmira». Detto terra terra: la guerra alle donne, al loro corpo (così come alle immagini della bellezza di una città come Palmira), esprime una specie di nichilismo. L’annullamento dell’immagine porta all’annientamento della portatrice di quell’immagine.

Nell’annullamento del corpo della donna Aboudrar trova qualcosa di “pornografico”, e spiega come quell’elemento di pornografia stia nello sguardo maschile. E inevitabilmente, vengono in mente altre foto, dove invece il corpo della donna è nudo ed esposto allo sguardo e all’obiettivo di chi sta per ammazzarla, del carnefice che un minuto dopo aver impugnato la macchina fotografica, poserà la mano sul fucile. Si tratta delle immagini, esposte in molti, troppi musei della Shoah nel mondo e che raffigurano ebree, spogliate, un attimo prima di morire. Anche nel male estremo c’era un forte elemento della guerra alle donne. Altra analogia: a controbilanciare l’immagine della donna velata e sottomessa, ci sono altre immagini di musulmane, le donne curde che combattono. Assomigliano alle combattenti del ghetto di Varsavia. E la sola vista di una donna armata terrorizzava i maschi soldati tedeschi: in un curioso rovesciamento dei ruoli le consideravano diavolesse assetate di sangue.


DOVE C’È IL VELO CI SONO UOMINI OPPRESSI


E ancora, e per tornare alla stretta attualità. Aboudrar sottolinea quanto il velo sia una caratteristica dei regimi più retrivi e più oppressivi, anche nei confronti degli uomini e di chiunque la pensi diversamente e non voglia adeguarsi alle regole imposte dal potere e dagli imam; e fa l’esempio dell’Arabia Saudita. Parafrasando la celebre frase di Carlo Marx, «un popolo che opprime un altro popolo non può essere libero», si potrebbe dire che i maschi che opprimono le donne non sono liberi. E basti pensare al fatto che per il reato dell’ateismo, in Arabia Saudita è prevista la pena di morte. Un esempio: il poeta palestinese Ashraf Fayadh, trovato colpevole, è stato condannato alla pena capitale da un Tribunale saudita per aver dubitato dell’esistenza di Dio.

Adriana Cavarero è filosofa, da anni impegnata nella ricerca dello specifico femminile. Dice: «In vari scenari storici il corpo della donna è una delle principali questioni in gioco». Spiega come lo stupro sia sempre stato un’arma di offesa del nemico, e come questo strumento di guerra si sia evoluto, fino al suo uso, appunto, del tutto perverso, in Bosnia. Quando sente dire che fu quella guerra a far capire a molti maschi (basti citare l’esempio di Adriano Sofri) quanto lo scopo delle guerre fosse proprio il controllo del corpo delle donne, da seguace e interprete di Hannah Arendt, pensatrice ecclettica e calata nelle cose pratiche, Cavarero precisa: «Io per principio rifiuto la riduzione del mondo a un solo paradigma in grado di spiegare tutto». Ma poi spiega quanto la specificità femminile, che ha imparato proprio da Arendt, stia nel «vedere la nascita e non la morte come fondamento dell’essere umano».

Volgarmente: la donna è vita, la donna ha presente che non siamo individui singoli e isolati, ma che il nostro essere umani si esprime attraverso i nostri rapporti con gli altri; e ancora, sono sempre state le donne ad avere cura dei riti funebri; perché le donne sanno cosa è la pietà». A sentir parlare Cavarero, viene in mente una messa in scena, anni fa, delle “Troiane” di Euripide, realizzata dal regista Giancarlo Cauteruccio. A Firenze, all’ingresso dell’ospedale di Careggi, attrici e donne spettatrici coinvolte nello spettacolo, tra le sirene delle autoambulanze, incarnavano quello che la filosofa ha appena detto: la consapevolezza che ogni guerra, alla fine, si rivolge contro la natura stessa della donna, e la riduce al ruolo ancellare, e alla fine al destino di schiava e oggetto nelle mani dei maschi. Come forse pensava pure Euripide.

Cavarero, autrice di “Orrorismo” (Feltrinelli), un libro in cui parla delle guerre contemporanee come guerre contro gli inermi, tiene a sottolineare altre due cose. La prima: con la comparsa delle donne kamikaze (anche se il termine è improprio) il grado di orrore nei conflitti è aumentato: «È difficile immaginarsi qualcosa di più orrendo dell’uso del corpo femminile per dare la morte». La seconda cosa è che si tratta, ancora una volta, di una violenza maschile, perché sono gli uomini, «verticali e in ascolto della parola di Dio unico», e non le donne, «inclinate e più concrete», a concepire la guerra.


ALLEANZA RELIGIOSA


Anche il Dio unico quindi può essere nemico della donna? Michela Murgia, oltre a essere una bravissima scrittrice, si occupa di teologia. Ma prima di entrare in questioni teoriche vuole parlare di femminicidio: in Italia 152 vittime nel corso del 2014. «È una guerra vera», dice. «La mia non è retorica o metafora, visto che a essere uccise sono le donne più coraggiose, quelle che resistono al tentativo di sottometterle». Poi passa a parlare delle fedi e di Dio: «La pace tra le religioni si farà sul corpo delle donne». Spiegazione: «Nelle organizzazioni internazionali, quando si tratta di diritti come aborto e simili il Vaticano e i Paesi musulmani fondamentalisti votano allo stesso modo». Ma c’è anche un lato strettamente teologico della questione. Secondo la scrittrice, occorre avere il coraggio di dire che «Dio è donna: nella Bibbia ci sono diversi passaggi che lo suggeriscono». E già che ci siamo: «Nella stessa concezione della Trinità, c’è un elemento femminile, che però nell’immaginario pittorico prodotto dai maschi, è stato eliminato o dimenticato, e nella teologia ridotto al mistero della fede». Insomma, le tre grandi fedi monoteistiche, sono anche strumenti di potere. «E il potere non è neutrale, il potere è questione di genere», conclude.

La pensa in un modo simile un maschio, un grande poeta: Adonis, siriano di casa a Parigi. In un libro fresco di stampa “Violenza e Islam” (Guanda), sostiene: «Il femminile, come la poesia, è essenzialmente contro la religione. Perché la religione è una risposta, mentre la poesia è una domanda e come tale, sta agli antipodi del potere. In questo senso c’è una forte affinità tra poesia e femminilità».