Sfruttata, manipolata, negata. La fisicità delle donne è al centro del mondo narrativo della scrittrice. Ma del loro aspetto non si sa niente. Perché è nell’invisibilità il segreto del dominio

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Sembrano le meduse nell’acqua del porticciolo roccioso vicino a casa, quand’ero piccola. Erano come campane increspate, così eleganti quando dondolavano nel mare; ma se si arenavano sulla spiaggia e si seccavano al sole, sparivano, non restava più niente. Ed è così che sono le signore: quasi solo acqua»... Solo acqua: così sono le donne, racconta la protagonista dell’“Altra Grace” - romanzo del 1996 che Margaret Atwood scrisse ispirandosi a un fatto di cronaca del 1843. A lei interessava raccontare della giovane Grace Marks, della sua presunta responsabilità in un omicidio, della sua contraddittoria personalità. Ma le donne nel mondo di Atwood sono sempre contraddizioni viventi. Le donne, come si legge nell’“Altra Grace”, tendono a scomparire senza lasciare traccia di sé. Ma non è detto che sia un male.

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Margaret Atwood compirà ottant’anni il prossimo 18 novembre e, come spesso accade agli scrittori che hanno intercettato le istanze fondamentali della nostra contemporaneità, non facciamo che rileggerla. Non facciamo altro che cercare nei suoi libri angolazioni da cui mettere in prospettiva il mondo. Nella primavera del 1984, quando iniziò a scrivere “Il racconto dell’ancella”, Atwood si trovava a Berlino Ovest. Ogni domenica mattina le forze aeree della Germania dell’Est passavano sopra la città, producendo sonori boati al solo scopo di ricordare quanto il blocco orientale fosse vicino. L’apprensione, il sospetto di essere spiati, il modo obliquo in cui le persone si scambiavano le informazioni: tutto influenzò la stesura del romanzo. Compresa l’esigenza - fortissima - di ancorare la distopia a elementi reali, per non perdere la verosimiglianza.

Margaret Atwood ha parlato spesso degli abiti con i quali ha vestito i suoi personaggi femminili: il blu delle Mogli (spose dei Comandanti, gerarchi della Repubblica di Gilead) richiama la purezza della Vergine; così come il rosso delle Ancelle (le donne fertili schiavizzate al solo scopo di procreare) richiama Maria Maddalena e il sangue del parto. Ma il copricapo, quella specie di cuffia bianca che nasconde completamente il viso, non ha nulla a che fare con gli abiti delle religiose in epoca vittoriana, come molti hanno pensato interpretando le parole dell’ancella Difred. Quel copricapo così inquietante si ispira, invece, a una confezione di detersivo degli anni Quaranta: l’Old Dutch. Al centro era raffigurata una donna, il passo deciso e minaccioso, un bastone in mano, la testa e il viso coperti da uno strano cappello bianco. “I am coming to clean up the town”, recitava lo slogan. Da bambina, Margaret ne era terrorizzata. In quell’immagine c’era qualcosa di violento e angosciante. Soprattutto perché nessuno avrebbe saputo dire che faccia avesse quella donna.

Visi e corpi che non sappiamo descrivere. Che sono sempre lì, ma non sappiamo come siano. È questo il punto. Al centro dei romanzi di Atwood troviamo sempre il mondo femminile. «Penso a tutto quello che è stato scritto su di me: che sono un demonio disumano, che sono la vittima innocente…, che ho gli occhi azzurri, che ho gli occhi verdi, che i miei capelli sono rosso scuro e anche bruni, che sono alta e che non supero la statura media», dice Grace. La donna è tutto, e il suo contrario. È un corpo negato, perché mai descritto in modo preciso. Un corpo coperto e sempre nascosto. È una scelta della narratrice, una scelta che sembra suggerire qualcosa.
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«Solo chi è morto ha diritto a una statua; a me, invece, ne è stata dedicata una in vita. Sono già di pietra». Inizia così “I testamenti “(Ponte alle Grazie, traduzione di Guido Calza), il seguito del “Racconto dell’ancella”, uscito con grande clamore mondiale lo scorso settembre, e vincitore dell’ultimo Booker Prize. Inizia con Zia Lydia (già nel Racconto, coordinatrice - e aguzzina - nella scuola di addestramento per le ancelle). Zia Lydia si rivelerà un personaggio in straordinaria evoluzione. La statua che la ritrae la rappresenta più giovane e in forma di quanto non sia da tempo. Sulle labbra, un sorriso fermo ma benevolo. È l’unica caratterizzazione fisica di Zia Lydia, ma viene fatta attraverso la descrizione di una statua, attraverso cioè qualcosa che corpo non è più. C’è, qui, tutta l’ironia di Margaret Atwood.

Appena la incontriamo nel “Racconto dell’ancella”, Difred ci mostra l’abito che è costretta a indossare. Dentro allo specchio, però, la sua immagine rimanda ad altro. Sembro una suora, pensa: una suora inzuppata nel sangue. Difred, l’ancella, e la voce struggente di chi è sul punto di scomparire come persona; quella sensazione di non esistere più, non davvero. Anche se rimane la voglia di ritrovare una connessione con il mondo. «Aiuterei Rita a fare il pane, affondando le mani in quel morbido tepore resistente che è così simile alla carne. Desidero ardentemente toccare qualcosa di diverso dalla stoffa o dal legno. Desidero commettere l’atto del toccare». A un certo punto - però - a Difred, la donna dai contorni che si fanno sempre più sfumati, sfugge qualche descrizione. Ha i capelli castani, dice, è alta un metro e sessantasei. Tutto qui. Dopo, più niente.

Com’è Iris Chase, protagonista dell’“Assassino cieco”? Che aspetto hanno Agnes e Nicole, le giovani al centro dei Testamenti? E le amiche di quel geniale racconto che è “Fantasie di stupro”? Quattro donne parlano con dissacrante ironia di una violenza sessuale che fantasticano di subire. Il corpo non potrebbe essere più centrale, ma il corpo non c’è, l’autrice non ce lo fa vedere. Riguardo al potenziale stupratore si fanno supposizioni sull’altezza, sulla voce, sulla pelle: a volte l’uomo parla in modo strano, sembra un papero; a volte è cosparso di brufoli. Ma le donne? Le loro gambe, le mani, i fianchi?

Certo: il corpo delle donne è sempre veicolo di maternità, ma quella stessa maternità ha qualcosa di incorporeo, perché meccanica, perché imposta dalle regole sociali. Difred prima di offrirsi al Comandante si sente come una nube congelata intorno a un oggetto centrale. La maternità è un’esperienza dilaniante nell’universo di Atwood. Un’esperienza che spezza in due le donne. O perché il figlio nascerà per sbaglio, come nel caso di Mary (la migliore amica di Grace), oppure - come nel caso dell’Ancelle - perché verrà separato dalla madre. Dove il corpo di donna pulsa più forte c’è una frattura, sempre. In un’intervista Margaret Atwood disse che non aveva voluto scegliere tra il diventare madre e la sua carriera di scrittrice. Desiderava entrambe le cose con tutta se stessa, non sopportava di essere divisa in due. Ma sapeva che era una scelta difficile.

Quando il corpo c’è, è veicolo di sofferenza: è descritto attraverso il dolore. Quello di Moira torturato nel “Racconto dell’ancella”. Quello di Becka, la giovane che nei “Testamenti” si taglia i polsi con le cesoie. Quello delle donne disperate che bevono il liquido per sgorgare gli scarichi fino a farsi sciogliere la faccia. Quello delle presunte colpevoli che pendono ovunque nelle pagine di Atwood; sembrano polli sospesi a una corda, uccelli senza volo, angeli annientati. Anche i corpi delle dodici donne del “Canto di Penelope”, le dodici ancelle che si sono lasciate stuprare dai Proci. Per Penelope, erano le figlie che non aveva mai avuto: il suo è un canto di dolore per la loro morte. Se nel suo cuore c’è amore, è solo per le ancelle fatte impiccare dal marito.

Margaret Atwood riscrive nel 2005 il mito del ritorno di Ulisse attraverso gli occhi di una sposa intelligente, non bella, abituata a vivere in un cono d’ombra. La stessa che durante il banchetto nuziale è rimasta in disparte, incapace di mangiare, disgustata dall’ingordigia dei suoi convitati, augurando a se stessa di diventare come acqua. Già, ancora l’acqua: che scorre, che va dove vuole e niente le si può opporre. L’acqua paziente, che goccia dopo goccia consuma la pietra.

Sembra che per il suo arrivo in Italia, gli agenti di Atwood si siano raccomandati di farle trovare in camera una banana, una carota, un limone. Se il corpo c’è, ma non si vede, non possono certo esserci i piaceri della gola: Penelope lo sa bene. Nelle pagine dell’autrice, il cibo è semplice nutrimento, al limite del disgustoso. Avanzi di rape, carcasse di pollo, tramezzini rinsecchiti, sbobba di vario genere. L’unica prelibatezza è costituita dalle arance, simbolo di pienezza e di fertilità. Sono le arance a essere lasciate, insieme ai croissant, ai piedi della statua di Zia Lydia.

Nel 1969, Margaret Atwood esordiva con “La donna da mangiare”. Marian, la protagonista, conduce una vita senza troppe emozioni, ma un certo punto impazzisce: non riesce più a capire la differenza fra sé e il cibo, vive con il terrore di poter essere divorata dai colleghi, dagli amici e dal fidanzato. Perciò, per non farsi mangiare, non mangia. «Per sopravvivere nella natura bisogna conoscere i propri predatori e non sembrare delle prede», ha detto Atwood in un’intervista. L’evanescenza di cui gode Penelope nell’Ade e a cui aspira Marian non è la registrazione di un dato di fatto, ma qualcosa di auspicabile.

Il mondo di Margaret Atwood ruota intorno al corpo - sfruttato, manipolato - delle donne, ma quel corpo non è descritto, non è peculiare, non è sensuale. Non c’è mai. Non è solo Gilead che vuole far sentire la sua forza spersonalizzante, è molto di più. È una scelta stilistica precisa che attraversa molti libri dell’autrice. È un gioco di prestigio, è l’esercizio della sua ironia. E l’ironia, si sa, serve a farci pensare, a suggerirci qualcosa.

Atwood ambisce all’incorporeità: è questa la strada futura delle donne? Diventare evanescenti e potenti come l’acqua, per acquisire finalmente peso politico? Sottrarsi agli sguardi per far sentire forte la propria voce, oltre i confini della nostra pelle? A pochi giorni dal suo compleanno, è lei a farci un regalo: a donarci nuovi quesiti, nuove possibilità. «La modestia è nell’invisibilità, diceva Zia Lydia. Non scordatelo. Essere viste… è essere penetrate. Voi ragazze dovete essere impenetrabili». Perché l’invisibilità, zia Lydia lo sa bene, è molto più della modestia. È potere.