La rivoluzione messa in atto nella terza stagione di The Handmaid's Tale. O i gol ai mondiali. Due belle risposte ai rigurgiti di fascio-maschilismo

Sono vestite di rosso, come il sangue mestruale. Hanno una cuffia bianca, come le monache, che nasconde il volto, dettaglio terreno di un destino che le ha consegnate alla mera riproduzione, oggetti senza nome né corpo, da violentare a piacimento e destinare a salvare un mondo di cui non fanno parte se non come vuoti orpelli. Sono le ancelle di “The Handmaid’s Tale”, la serie tv (Tim Vision) talmente prepotente nella sua simbologia da essere stata adottata da ogni forma di rivendicazione al femminile. Quando le donne manifestano, si uniscono e reagiscono all’estenuante tentativo di ritorno al passato più oscuro, l’iconografia dell’ancella creata da Margaret Atwood si materializza. E si impone sovrana.

Questa terza stagione, come spesso accade quando la si tira troppo in lungo, sembrava aver esaurito la sua spinta. Perché dopo che hai raccontato l’orrore in ogni sua sfumatura, il resto sono bazzecole. Ma quando ci riprende la libertà lo spazio non è mai abbastanza. E il racconto della rivolta ha la forza dello tsunami. Le schiave stracciano la loro divisa per capovolgere quel sistema disumano che le ha ridotte a uteri da profanare. E trovano la forza di ribellarsi, perché essere madri torni a essere una scelta. E non il senso ultimo dell’essere donne. Anzi.

Ritratto
La vera colpa di Geppi Cucciari
3/6/2019
Perché a volte, incredibile ma vero, si può persino decidere di non riprodursi. Un buffo concetto che di questi tempi suona stonato persino nel nostro civilissimo Paese. In cui ci si appella al cuore di Maria, madre primigenia. In cui la direttrice di Rai Uno sceglie una «donna dinamica e madre». Un Paese in cui si istilla il dubbio che la legge sull’aborto sia materia di discussione. E che in fondo il vero problema delle donne è quello di non avere una paghetta per ogni figlio anziché un salario equiparato ai colleghi. Che si sa, le donne lavorano per sfizio e si riproducono per natura.

Come il gioco del calcio. Lasciamole sgambettare in quel campo tra due porte, “quelle quattro lesbiche”, come le definì simpaticamente il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, che si sfoghino pure, si è detto prima dell’inizio dei Mondiali di Francia. E giù tutti a ridere, tra una telecronaca femminile, un arbitraggio femminile, tifo al femminile, così poco credibili prima del fischio d’inizio che si pensava solo a quanto sarebbe stato divertente intervistarle negli spogliatoi. Per arrivare poi alla discesa in campo e all’urlo alla Gassman nei Mostri, quando nei suoi stracci dimentica il milione di figli e tifa come se non ci fosse un domani.

Ma occhio, che prima o poi anche le donne nel loro piccolo si incazzano. E fanno la rivoluzione. O segnano un gol.