Jan Ribbeck dal 2018 coordina le missioni della Alan Kurdi. Dal ponte o dal suo studio a Monaco. Qui si racconta. E denuncia: «In Libia torturano anche i bambini»

GettyImages-1154500078-jpg
La notte del 4 dicembre scorso la nave Alan Kurdi - che aveva salvato dal mare 84 persone, comprese diverse donne incinte e bambini - è finalmente entrata nel porto di Messina, mentre al largo le onde arrivavano a toccare i due metri. L’ultima di tante missioni di salvataggio per questo cargo di 39 metri costruito nel 1951 e che da due anni è una delle tre imbarcazioni di Sea Eye, fondazione umanitaria di Ratisbona, in Germania. Il nome della nave, Alan Kurdi, è un omaggio al bambino curdo di tre anni in fuga dalla guerra siriana il cui corpicino è stato fotografato su una spiaggia turca diventando un’icona mondiale del dramma migratorio.

Jan Ribbeck è stremato. Da casa sua, vicino a Monaco, ha guidato le operazioni di soccorso per più di una settimana. «Ora sono felice di poter riposare un po’», dice sforzandosi di abbozzare un sorriso. Jan ha 55 anni. Dal 2018 coordina le missioni in mare della Alan Kurdi: «Sono responsabile della formazione dei volontari, delle condizioni dell’equipaggio, dell’organizzazione dei soccorsi e delle relazioni diplomatiche con i vari Paesi». Non è il capitano della nave: opera da dietro le quinte ricoprendo un ruolo che nel racconto frenetico degli sbarchi resta sconosciuto ai più. Jan è parte di un ingranaggio, di un sistema, che senza le altre componenti non potrebbe funzionare. A lui, però, spetta decidere come portare in salvo le persone avvistate nel Mediterraneo. «Ho dovuto imparare a stabilire velocemente che cosa fare. Devo coordinare i volontari e capire come recuperare i migranti», spiega. Non è possibile tentennare. Quando parla del compito che riveste sull’Alan Kurdi, dice di essere la “head of mission”: la testa dell’operazione. Pensa per tutti. E fa in modo che non ci siano complicazioni durante i trasbordi.

Storie
Io, profuga a cinque anni, tornata in Africa a curare i bambini in guerra
22/11/2019
Per lui, forse, mantenere la calma pur sapendo di avere una responsabilità enorme è più facile che per gli altri “Search and rescue men” (come vengono chiamati in gergo i capi delle missioni): è un chirurgo e come tale è abituato ad avere la mano ferma, a prendere decisioni che potrebbero drasticamente cambiare la vita di tanti. «Per me è normale salvare vite umane. Lo faccio in ospedale per 12 ore al giorno. Lo faccio in mare». Divide la sua vita tra Monaco e il ponte di comando dell’Alan Kurdi. Alcune missioni Jan le segue dalla nave: «Quest’anno sono stato via per più di due mesi», racconta. Altre invece le coordina a distanza, da casa sua a Monaco. «Da qui, dal mio studio, sono costantemente in contatto con l’equipaggio. A meno che non accada qualcosa». Come un mese fa, ad esempio: durante un attacco delle milizie libiche Jan non ha saputo per ore che cosa stesse accadendo alla nave. È rimasto fermo davanti alla sua scrivania aspettando che il cellulare squillasse di nuovo.

Quando capitano periodi così, in cui la vita da volontario di un’organizzazione internazionale e quella da chirurgo si sovrappongono, Jan scompone la sua giornata in due parti: «La mattina vado in ospedale poi verso ora di cena torno a casa». A quel punto si chiude nel suo studio, prende il cellulare e inizia a chiedere che cosa stia succedendo a più di 1.600 chilometri di distanza. Alcuni giorni sono più frenetici perché si ricevono segnalazioni di barconi in arrivo o perché c’è una safe zone da trovare per chi è approdato sull’Alan Kurdi. «Quest’ultima settimana è stata tremenda», confessa.

Quando chiedi a Jan per quale motivo abbia deciso di fare questa vita, si prende il suo tempo per riflettere. Poi risponde con calma: «Ho iniziato come medico di bordo, nel 2016. Aiutavo dove potevo. Rispondevo a un istinto che per me è naturale: salvare vite umane. Poi, però, vedendo che cosa stava succedendo nel Mediterraneo mi sono avvicinato sempre di più all’aspetto politico della questione». Era il 2017, gli sbarchi continuavano. L’operazione Sophia, che aveva il compito di contrastare i trafficanti di esseri umani, incominciava a vacillare. E gli accordi con la Libia per bloccare le partenze stavano per diventare effettivi. Jan capisce che per salvare la vita di chi ha di fronte non deve soltanto curare le sue ferite psichiche e fisiche. In primis, deve fare in modo che quella persona non anneghi. «Sapevo che organizzando le missioni di soccorso avrei potuto aiutare molto di più. Così ho deciso di diventare un membro stabile della Sea Eye. Volevo che quelle morti finissero».

Negli ultimi tre anni l’Alan Kurdi è riuscita a portare in salvo 15 mila dispersi. Durante gli ultimi 6 mesi sono stati portati a bordo più di 400 migranti. «Li ho guardati negli occhi uno a uno. Ora non so neanche dove siano finiti», confida Jan. Molti stavano fuggendo dai centri di detenzione libici. «Picchiano e torturano anche i bambini. Sappiamo tutti cosa succede lì dentro ma non facciamo nulla per fermare questa situazione», dice scuotendo il capo. Il suo sguardo è quello di una persona rassegnata.

Come i tanti volontari che gravitano intorno a una Ong e come i tanti capi missione che per primi si addossano la colpa, morale, di ciò che succede, Jan ha visto decine di persone perdere la propria vita a causa di un viaggio intrapreso per cercare una via di fuga, una salvezza. «Mi è capitato di dover lasciare delle persone in mare perché non potevo prenderle sulla mia imbarcazione. È stata una delle cose peggiori che io abbia mai fatto. Non deve succedere mai più». La voce è rotta. Seguono momenti di silenzio interminabili. Quella volta, Jan non è riuscito a portare a termine il suo compito. La sensazione è simile a quella che prova quando un suo paziente non supera una convalescenza o un’operazione. «Non bisogna abbandonare nessuno», sentenzia.

Jan lo sa, però, che la sorte di queste persone non dipende solo da lui. Di mezzo c’è la politica, ci sono gli interessi. I “Search and rescue man” si occupano principalmente di far in modo che l’operazione di soccorso vada in porto. Ma una volta saliti a bordo i migranti, inizia la trafila per avere un luogo dove attraccare. In quei casi, come accaduto pochi giorni fa, si aspetta. E si spera. Jan rimane sveglio tutta la notte nel suo studio, a Monaco. Sua moglie lo aspetta a letto. «Quando noi non ci siamo. Nessuno controlla il Mediterraneo. L’Europa non riesce a vedere tutte le navi che stanno partendo, tutte le persone che stanno annegando». L’head of mission sa benissimo che il suo compito non è finito.