Sedici anni nelle carceri di Assad. La compagna ancora reclusa. E le sue "lettere a Samira" scritte su un blog e pubblicate su "Le Monde". La “rivoluzione impossibile” di Yassin al Haj Saleh, scrittore dissidente
Il grado zero del dolore nel cuore di un uomo è quando questo è così grande da tramutarsi in forza, oltre ogni partigianeria e rabbia privata, e diventare coscienza collettiva. Yassin al Haj Saleh, scrittore, giornalista e dissidente politico, è noto nel mondo arabo e in Occidente come “la coscienza della Siria”. Sua moglie, l’attivista Samira Khalil, è una dei “Quattro di Duma”, insieme all’avvocatessa Razan Zaituneh, Wael Hamada e Nazem Hamadi, i membri del Violations Documentation Center, rapiti il 9 dicembre 2013 nella Ghuta, la periferia est di Damasco allora controllata dalla milizia islamista Jaysh al Islam e mai più tornati.
Nato a Raqqa nel 1961, il 7 dicembre 1980 mentre era studente di medicina all’Università di Aleppo, Haj Saleh viene arrestato perché membro del Partito comunista siriano di Riyad al Turk, oppositore del regime instaurato da Hafez al Assad nel 1970, il padre dell’attuale presidente. Sedici anni di prigione, l’ultimo dei quali nel braccio della tortura nel deserto di Tadmur, Palmira. Poi il sostegno alla Rivoluzione del 2011, l’esilio in Turchia e in Europa.
A otto anni dall’inizio della guerra civile, mutazione delle proteste pacifiche sulla scia delle Primavere arabe, analizza la “questione siriana” alla luce di quella che ritiene una crisi politica e dello stato di diritto globale, dominata dal “nichilismo” fascista, dall’autoreferenzialità di sinistre senza più passione, da mode populiste.
La Rivoluzione in Siria ha perso ma non è morta: «C’è un forte sentimento di dignità nato dalla partecipazione a uno scontro eroico e dalle terribili conseguenze subìte, un processo di apprendimento e cambiamento che durerà a lungo»,dice Haj Saleh, che spiega i legami tra Bashar al Assad, le organizzazioni salafite, lo Stato islamico: «Uno è il nichilismo. L’adorazione della violenza assoluta fine a sé stessa e l’eternità, cioè la volontà di imporre ai sudditi condizioni che dureranno per sempre. L’altro è il fascismo: Assad è un fascista con la cravatta, quelli dell’Isis sono fascisti con la barba lunga. La differenza è che la famiglia del fascista con la cravatta governa la Siria da 50 anni mentre i fascisti con la barba hanno vissuto appena per 5 anni. Isis ha agito in prevalenza contro la rivoluzione e molto di meno contro il regime. Il regime ha visto con favore il loro emergere perché è contro la rivoluzione e perché lo facilitano nel propagandare che la rivoluzione stessa è terrorismo».
La narrazione assadista promuove la pulizia etnica dei “terroristi”- islamisti, ribelli o popolazione civile sunnita - in quanto oppositori, nega gli ideali della protesta, ritiene l’Isis un’invenzione di potenze straniere per rovesciare il governo. I cristiani sono usati per legittimare questo disegno: «Il regime propone sé stesso all’Occidente come il protettore delle minoranze dalla maggioranza arabo-musulmano-sunnita ed è suo interesse che emergano estremisti. La questione è politica e non religiosa, come sapeva benissimo padre Paolo Dall’Oglio. Mi dispiace che molti della destra cristiana appoggino il regime confessionale in Siria, sono loro stessi islamofobi. È il regime ad essere protetto dalle minoranze, non viceversa».
Il sostegno al governo di Damasco da parte delle destre europee e dei movimenti sovranisti è naturale: «Credo che i fascisti europei sognino di poter torturare e uccidere e bombardare il loro “terzo mondo interno”, quello composto da immigrati e uomini di colore, esattamente come hanno fatto “i siriani bianchi”, l’élite, contro i “siriani neri”, la maggioranza dei ribelli». E aggiunge: «I fascisti europei sanno che i loro governi sono ostili alla democrazia nei paesi del Medio Oriente e preferiscono che a governare le nostre società siano tiranni che assicurino continuità al loro colonialismo».
Nel maggio 2011 il mondo vide le foto del corpo di Hamza al Khatib, 13 anni, arrestato il 29 aprile a Dar’a a un corteo e restituito un mese dopo alla famiglia coperto di ematomi, bruciature, stuprato ed evirato. Nelle stesse settimane il governo mandò i carri armati nei quartieri di Bab Sba e Baba Amr ad Homs a reprimere la piazza. Le armi e di lì a poco la comparsa di gruppi islamisti avrebbero reso la Primavera una guerra “multistrato”. «I siriani hanno voluto per mesi impossessarsi pacificamente dell’arma politica, ma sono stati attaccati subito con la guerra e così impossessarsi della guerra è diventata la condizione per appropriarsi della politica», spiega Haj Saleh.
Militarizzazione della protesta e intervento di potenze straniere coinvolte dallo stesso regime hanno poi aperto scenari imprevisti. Il riferimento non è solo ai paesi impegnati nelle azioni militari pro-Damasco come Russia, Turchia e Iran, il peso nell’area di Stati Uniti e Israele, gli interessi dei paesi del Golfo, ma la reazione dell’Occidente di fronte alla “fine del diritto internazionale”, con il primo lancio di armi chimiche nella Ghuta, il 21 agosto 2013. Assad l’avrebbe fatto per ottenere l’attenzione che voleva: «È diventato un partner politico nel disarmo chimico, membro nel circolo “guerra al terrorismo”. Il mondo è cambiato irrimediabilmente da quel giorno nefasto, ci è stato detto con molta chiarezza che la nostra morte non conta niente e così pure la nostra vita. Il terzo grande nichilista è il regime mondiale».
Anche della pratica della tortura sistematica lo scrittore è vittima e testimone. Ha due scopi: annullare i singoli, terrorizzare la società. «I siriani sono diventati, come dice il filosofo Giorgio Agamben, homo sacer, persone destinate all’uccisione senza che questo costituisca un crimine. La rivoluzione non è che una ribellione degli schiavi contro un padrone molto efferato. Abbiamo vissuto per mezzo secolo una vita nuda, senza protezione, privati della politica».
Haj Saleh ha passato un anno a Tadmur. «Ho subito torture, vissuto la paura e la fame, ma la prigione è stata una prova di emancipazione in cui mi sono liberato da molte prigioni interiori. Ora è un antidoto contro la disperazione: la sparizione di Samira sarebbe un’esperienza distruttiva se non avessi questo antidoto».
Critico nei confronti dell’Urss e vicino al comunismo europeo, negli anni ’70 il suo gruppo già lottava per la democratizzazione del paese: «Enrico Berlinguer era molto familiare tra noi», dice. Oggi il clima è cambiato. «Ci sono molte persone rispettabili ma sono scioccato dell’atteggiamento della sinistra occidentale. Non hanno sentimento e sono pure arroganti. Il loro punto di riferimento è solo l’Occidente e legano la nostra lotta per il dritto di essere padroni del nostro paese a quella contro l’imperialismo. Neanche loro combattono questa battaglia perché sono imperialisti essi stessi, nel modo loro».
Anche Samira è stata un’oppositrice, in carcere dall’ 87 al ’91. «L’ho vista l’ultima volta il 10 luglio 2013, quando ho lasciato la Ghuta per andare a Raqqa. Poi abbiamo parlato per cinque mesi via Skype. Si era rifugiata a Duma perché era già fuori dal controllo del regime che la stava di nuovo cercando». Libri a parte, come l’ultimo “The Impossible Revolution”, il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato le “Lettere a Samira”, comparse in arabo sul blog da lui fondato, AlJumhuriya, poi tradotte e lette in tutta Europa. Sono già tredici, dentro c’è l’analisi di quel che accade in Siria, riflessioni, ricordi. E il dolore diventato lotta. «Voglio per il mio paese e per il mondo una pace fondata sulla giustizia e sull’uguaglianza. Samira è stata mia compagna anche in questo. La sua assenza è il mio motivo per continuare».