Ad Abood hanno tagliato la mano in piazza, chiamando il pubblico. Nel suo racconto la tragedia di un popolo che riprende a vivere dopo la sconfitta dell'Isis. Ma resterà segnato per sempre

Ci sono due costanti alla fine di ogni guerra: la ricostruzione e la rinascita. Una reazione innata nell’essere umano. Ripartire per dimenticare. A più di un anno dalla sua liberazione però, Raqqa sembra non riuscire a liberarsi completamente del suo passato. Oltre alla paura imposta dall’Isis, l’ex capitale del califfato è uscita sfigurata, trasformata in città fantasma, dopo la battaglia per la sua liberazione terminata nell’ottobre del 2017 e condotta dalle Forze democratiche siriane (milizie curdo-arabe) con il sostegno dell’aviazione della coalizione internazionale.

Se dimenticare ricostruendo è possibile, diventa più improbabile se i segni della guerra e della morte sono impressi nei corpi degli esseri umani o si cicatrizzano interiormente, lasciando che i flashback tormentino la mente. E la gente, a Raqqa, ha ancora negli occhi il terrore vissuto per anni e quello di una guerra di liberazione a tratti ingiusta. Fra la popolazione c’è chi ha sofferto sempre, come Abood. Rimpiangendo il passato.

«Non dimenticherò mai, nemmeno quando morirò, il giorno in cui i terroristi mi hanno amputato la mano in pubblica piazza. Era tutto organizzato nei minimi dettagli. La via, lo speaker che attirava i passanti con un microfono e il cameraman che filmava l’esecuzione. Non ero solo io a essere condannato. Eravamo molti. Ogni esecuzione avveniva in un luogo diverso per terrorizzare il maggior numero di persone», racconta Abood, mutilato dallo Stato islamico all’età di 15 anni. Mentre parla, seduto nella sua casa lacerata dai mortai delle Fds, si sfila la protesi che protegge la parte offesa, aiutandosi con la bocca: una mano di plastica appartenente a un manichino e raccolta fra le macerie di una via commerciale. «L’ho modellata con il fornello a gas per darle la misura del mio polso. Non potevo sopportare l’idea che i miei figli vedessero quell’orrore e non volevo continuare a nascondere il braccio in tasca. Purtroppo però, continua a ferirmi».
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Sembra si sia abituato. Sono passati ormai tre anni dal giorno in cui la sua vita è cambiata. «All’epoca, Daesh aveva cominciato a uccidere le persone per strada. Non uscivo spesso per paura. Una volta, andando al mercato, ho visto un cadavere decapitato proprio vicino a casa. Sono rientrato di corsa». Oggi, i segni di quella decapitazione sono ancora presenti come testimonianza, nella sua via infangata e sconnessa per via delle precipitazioni invernali e della forte umidità. Sul luogo dell’esecuzione, rimane la scritta “Non c’è altro Dio all’infuori di Dio e Maometto è il suo profeta”. Abood, scioccato, ancora non sapeva che una simile sorte sarebbe toccata anche a lui poco tempo dopo.

Il suo calvario è iniziato quando il suo vicino di casa, un ladro di quartiere, lo ha accusato di essere suo complice per rubare delle moto. Un reato che il Califfato puniva con l’amputazione della mano. «Incolpandomi, sperava di scagionarsi. Mi hanno arrestato e torturato, mettendomi in mezzo a una colonna di copertoni, frustandomi e picchiandomi. Ho cercato di spiegare che ero innocente. Ma non mi credevano».

Provare il contrario, anche quando si era innocenti, era pressoché impossibile. Inoltre, la giustizia arbitraria dei principi neri, tratta da interpretazioni personali del libro sacro dell’Islam, giustificava ogni tipo di abuso. Abood si è quindi trovato in una cella con altre persone, posta in una casa civile occupata. «Celle come questa, ce n’erano moltissime ed erano nascoste ovunque in città. Al loro interno mettevano un proiettore per mostrare le atrocità perpetrate su altri prigionieri o compagni di cella e incuterci più paura».

Ingannato da due miliziani, ha confessato il reato per non soffrire più. Invece, è stato il contrario. «Ho detto allo sceicco, il giudice, che avevo ammesso di aver rubato perché mi avevano promesso che tutto sarebbe andato a posto. Ma anche lui non credeva a una sola parola. Non credeva nemmeno che io avessi 15 anni, così mi ha portato in bagno e mi ha fatto calare i pantaloni, per vedere se avevo i peli pubici e chiedendomi se facessi sogni erotici».

Non era l’unico a subire umiliazioni quotidiane. Abood, però, ha scelto di reagire. Scappando. Ma dopo aver scavato un buco in un muro, lo hanno scoperto. Era giunta la sua ora. Più parla, più i suoi ricordi si fanno nitidi. Una mattina di gennaio ha visto entrare due jihadisti nella cella che hanno obbligato tutti a preparare i bagagli. «Sai dove stai andando? Mi ha chiesto uno di loro con un sorriso provocatorio. Ho risposto di sì, che sarei andato a casa. Ma la risposta è stata ancora più preoccupante, quando ho sentito la parola “no” uscire dalla sua bocca. Non andrai a casa, mi ha risposto, quasi divertito».

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Insieme ad altri prigionieri è stato caricato su un bus. Nessuno fra loro sapeva che cosa sarebbe successo fino a che, in una zona industriale, hanno fatto scendere il primo prigioniero di forza. «Gli hanno iniettato una sostanza con una siringa e poi, dopo averlo legato, gli hanno tagliato la mano». È in quel momento che Abood ha capito quale sarebbe stato il suo destino, ormai impossibile da cambiare, se non con la morte. «Ci siamo fermati sulla via Sebt Ed-Daula, la conoscevo. Continuavo a urlare, così hanno dovuto iniettarmi due volte la stessa sostanza. Una nella gamba e una nel collo. Ho perso completamente i sensi, ma ero cosciente».

La tensione saliva. La gente intorno si accalcava, chiamati dallo speaker che leggeva la sentenza e costretti ad assistere per non essere sospettati di tradimento. «Mi hanno legato la mano e l’hanno posta su un tavolo. Con una penna hanno segnato il punto dove volevano tagliare. Esattamente fra le due ossa del polso», racconta mostrando il punto esatto con le dita, «Poi hanno appoggiato una lama di un coltello che hanno conficcato nella carne spingendola con un tubo di ferro. L’ultimo ricordo prima di svenire è quello del mio polso dal quale sgorgava sangue ovunque. Mi sono risvegliato in ospedale».

La preparazione meticolosa era dimostrata anche dalla prontezza medica che avevano i terroristi. Dopo aver amputato il reo, gli offrivano le cure mediche in ospedale. «Solo quando ho ripreso conoscenza, ho capito per davvero che non avevo più una mano. Ero distrutto. Sono tornato all’ospedale qualche giorno dopo per riprendermi la mano e provare a ricucirla. Ma non c’era più». Secondo la madre, che siede di fianco al figlio commentando di tanto in tanto, non ci sono dubbi. La mano sarebbe stata esportata: «mettevano le parti amputate nel ghiaccio e le contrabbandavano». Per i primi mesi, Abood è stato aiutato dalla madre a vestirsi, mangiare, lavarsi. «Mi hanno tagliato la mano forte, quella destra. Secondo loro era scritto nel Corano».

L’amputazione della sua mano è stata un’ulteriore disgrazia per la sua famiglia, che vive nella povertà più estrema, essendo lui l’unico che può provvedere. La casa dove vivono non ha più le finestre, rimpiazzate da tele di plastica. Tutto è all’aperto, costringendoli a patire il freddo invernale e a farsi la doccia nel cortile con un secchio. Ma è una condizione di normalità nella Raqqa liberata: la continuazione della sofferenza anche dopo la fine del Califfato. Quando la battaglia per riconquistare la città è cominciata, anche Abood ha imbracciato le armi con le Fds per combattere, pure avendo una mano sola. La rabbia poi, lo pervade spesso: «Quando passo per quella via, ho voglia di vendicarmi. Oggi sto bene anche se darei qualsiasi cosa per avere una nuova protesi».

Protesi normali, purtroppo, non possono essere usate per i mutilati di Daesh. Ne è convinta Amira, responsabile dell’ufficio servizi speciali del Consiglio di Raqqa, una sorta di municipalità creata dalle Fds. «Casi come il suo ne abbiamo a migliaia. Su un totale di oltre 4 mila mutilati di guerra, 250 sono casi come quello di Abood. Di questi, il 30% sono donne e altrettanti sono bambini. Ma trovare loro delle protesi è molto complicato, proprio per il modo in cui i jihadisti amputavano».

Sembra proprio essere questa la cosa difficile. «L’unica possibilità di trovare una protesi sarebbe quella di andare a Damasco. Posso passare il confine con le zone controllate dal regime, ma i soldati mi prenderebbero e mi costringerebbero a combattere». Ciò rende l’idea di quanto i rifornimenti, a Raqqa, siano esigui. Gli aiuti internazionali poi, sono ancora di meno. La città sembra essere stata dimenticata da tutti. Dalla liberazione, poco o nulla è stato fatto e a poco meno di due anni dal termine della guerra, quasi tutti gli edifici sono ancora a terra. Solo chi può permetterselo, con i suoi risparmi, ingaggia ruspe per ripulire dalle macerie i suoi terreni e metà della popolazione è ancora fuori e stenta a tornare.

Se l’amputazione di Abood ricorderà per sempre la parte più tetra del dominio dell’Isis, case distrutte come la sua porteranno per sempre i segni dei bombardamenti della coalizione internazionale che hanno reso Raqqa irriconoscibile. Le strade sono ammassi di macerie. La rete elettrica non è ancora stata ristabilita e chi può, sopravvive con il generatore. Anche l’acqua non è sempre accessibile. In tutto questo inoltre, l’insicurezza. Al calar del sole, sono poche le persone che restano per le strade ancora piene di mine.

Ma se lo scenario è terrificante, la popolazione esce, cammina, parla. Le bancarelle del mercato, piene di frutta e verdura, sono montate sulle macerie di un edificio statale distrutto. Le piazze sono in rifacimento. I parchi giochi sono pieni di gente che ha voglia di fare un pic-nic in famiglia e alcuni commercianti riaprono i negozi, alzando le saracinesche che portano ancora il bollo del controllo jihadista. Ma i fantasmi del passato sono sempre in agguato per riconquistarsi il sostegno di una popolazione frustrata abbandonata a sé stessa.