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Ed ecco: la foto panoramica è fatta. Solo dopo che Longobardi ha finito, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, finalmente riprende vita. Era cristallizzata nel sorriso finto-spontaneo del selfie collettivo, adesso scatta lesta verso di lui. Per vedere come è venuta l’immagine più importante della serata e semmai rifarla. «Pazzesco!», esclama soddisfatta, al secondo tentativo. Finirà sui social, come il discorsetto ripreso in diretta, i meme in cui imita Game of Thrones, le foto in cui pesca le sedicenti zucchine di mare, il video con Metroman e il giro della morte, la visita a Vinci per ribadire l’italianità di Leonardo e insomma l’intera spremitura di ciò che può offrire nel frantoio comunicativo contemporaneo - gattini e politica, olio extravergine e morchia - rilasciata con esasperante regolarità su ogni piattaforma conosciuta.
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Si potrebbero dire tante cose, ma conviene partire da qui, per raccontare la più trash e grintosa leader di un partito del centrodestra che la storia ricordi - allo stato, volenti o nolenti, l’unica donna a guidare un partito nell’intero arco parlamentare. Giorgia Meloni, dunque.
Appena passati i quarant’anni, in politica con l’Msi An da quando ne aveva quindici, nata a Roma nord ma cresciuta a Roma sud, nel rosso quartiere della Garbatella, dove si è trasferita con la famiglia dopo aver inavvertitamente dato fuoco a casa giocando con una candela (quando si dice la fiamma), la presidente di Fratelli d’Italia, già giovanissima vice presidente della Camera e ministra, sembra all’apice del suo successo.
Alle ultime tornate regionali ha infatti sfiorato il sei e mezzo per cento, col partito fondato con Guido Crosetto e Ignazio La Russa alla fine del 2012 per non affondare nel coma del Popolo delle libertà (e ambire a gestire il non trascurabile patrimonio dell’ex Msi An, o quanto meno per ereditarne la fiamma nel simbolo ).
Puntiamo al tre-sei per cento, dissero il giorno della fondazione: e tutti intorno a ridere. A gennaio - potere della dissipazione dell’intera residua destra tradizionale - in Abruzzo Fdi ha raddoppiato le percentuali (6,48 per cento, 38 mila i voti) e conquistato il governatore, Marco Marsilio; a febbraio in Sardegna è salita a 34 mila (4,7 per cento, tre eletti); e già dal 2018 aveva tre eletti nel Lazio e tre in Lombardia. Il tutto grazie anche al sistema di centrodestra classico tutt’ora vigente nelle elezioni locali, con Lega, Forza Italia e Fdi che si dividono i posti disponibili (per il comune di Modena adesso corre un leghista, per Livorno un Fratello d’Italia e via così) e in prospettiva (se gli riesce) si divideranno anche le spoglie del partito berlusconiano, per via del fatale cannibalismo del nuovo sul vecchio. Vaste programme , direbbe quello. Per il momento, vi è da dire però che Fratelli d’Italia «è l’unico partito che cresce, oltre alla Lega», come inorgoglisce Meloni.
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Tanto basta infatti adesso alla leader di Fdi per lanciarsi in una impresa per taluni sconcertante, di certo ancora più ardita di quella (mancata nel 2014) di superare il 26 maggio lo sbarramento del 4 per cento alle europee: candidarsi a sostituire i Cinque Stelle al governo con il Carroccio. Col 5 per cento, al posto di un partito del 32? «Si faccia i conti», ha risposto secca in tv a Bianca Berlinguer che le contestava appunto, la trascurabilità dei voti. A guardare i sondaggi sontuosi per la Lega, basterebbe in effetti poco per governare solo con Salvini. Di conseguenza, il lancio dell’amo elettorale: «Volete un governo senza i Cinque Stelle? Votate noi». Finalmente così comanderà la destra-destra, nuova sfumatura: da giallo verde, a verde nero. Bella prospettiva, no?
È il messaggio che, tipo banditrice di piazza, Meloni ripete ovunque, con quel fare a metà tra Mara Maionchi e una Anna Magnani in versione bancarellara di Campo de’ Fiori (del resto, prima di diventare consigliera provinciale, la leader di Fdi si esercitò vendendo dischi in un banchetto al mercato di Porta Portese), tra uno Sconcerto del primo Maggio a Jesolo e una ritmata intervista al Messaggero (giornale romano al momento di spiccata linea anti Raggi, e dunque remante nella stessa sua direzione), spacciandosi in più occasioni addirittura come rappresentante del partito dell’amore («votate Fdi se votate per amore») contro il partito dell’odio (i grillini) - che poi era copyright del caro Silvio, uno dei suoi due benefattori, peraltro mai nominato come l’altro (Gianfranco Fini). «Con 32 deputati e 18 senatori abbiamo fatto la politica migratoria del governo, pensate cosa potremo fare quando saremo determinanti», dice intanto lei, sfrontata, a Castiglione del Lago, ristorante bar La Pergola, davanti a una ottantina di persone che per sentirla parlare l’hanno aspettata un’ora e mezza, i primi cinquanta minuti senza nemmeno toccare le mozzarelline fritte, i quadratini pizza e salame, le tartine col paté e il prosecco («aspettiamo Giorgia», sussurrava al microfono la candidata sindaca, Francesca Traica, agitando le unghie blu oltremare per scongiurare la rivolta), e figurarsi se si metterebbero mai a dire che la politica migratoria l’ha fatta Matteo Salvini, altro che Fratelli d’Italia.
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D’altra parte, vi è da dire, Meloni mescola contemporaneità e tradizione con una disinvoltura pari a quella di Matteo Salvini - in questo sì, sua pari alleata. Alla faccia del pauperismo anti-casta con lei ad esempio si beve e si mangia, in piena tradizione missino-aennina, con generosi aperitivi e cene elettorali in tovaglia bianca e cibi tipo le «rocciatine di rapette, fonduta di pecorino». Alla faccia del superamento di destra e sinistra, si parla sia di destra che di sinistra. Al modo che conviene a lei, ovviamente: cioè Berlusconi e Forza Italia non sono nemmeno nominati, la Lega appena accennata come orizzonte di governo, i Cinque Stelle e la sinistra trattati come un blocco unico. Sembra strano? Sono tutti avversari, del resto. Dall’ex sottosegretario dem Sandro Gozi, puntualmente attaccato perché si candida con l’inviso presidente francese Emmanuel Macron ( «così abbiamo scoperto che quello che Renzi mandava in Europa a difendere gli interessi nazionali è uno che si sente francese») fino a Luigi Di Maio, il vicepremier figlio di missino ma incredibilmente dipinto come un rifondarolo, quasi un comunista, un disobbediente tipo il bertinottiano Francesco Caruso - per chi se lo ricorda - o comunque, per stare al virgolettato, come «uno che porta avanti idee che sono state sconfitte quando era alle elementari e dice cose che non dice più neanche Bertinotti».
Tutto un unico blocco, di sinistra, che Meloni è qui per sconfiggere insieme con una sconcertante varietà di personaggi, e tutte le destre concepibili, posto che fra l’altro Salvini si è annesso quella di Casapound (l’altro giorno infatti alla periferia di Roma litigavano appunto con i Fratelli d’Italia per chi dovesse intestarsi l’ennesimo ignobile assalto ai rom intestatari di casa popolare). Tutti i pezzi che riesce a raccattare e che pian piano le si riavvicinano: l’ex sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi, gli alemanniani guidati dall’ex finiano Roberto Menia, il presidente del potenza Calcio Salvatore Caiata entrato in parlamento con le liste M5S, i Cuori italiani di Andrea Augello, la ex forzista Elisabetta Gardini, il sociologo Francesco Alberoni, in corsa a novant’anni per l’europarlamento, poi forse gli storaciani, forse altri finiani (via telefonata fantasma con il capo di un tempo), sicuramente un Mussolini a caso (stavolta Caio Giulio Cesare, pronipote di Benito, manager e già sommergibilista, capolista al Sud, nel 2016 alle comunali di Roma fu Rachele, nipote, figlia di Romano), e come simpatizzanti di sfondo personaggi tipo il leader del Family Day Gandolfini, l’ex ministro Giulio Tremonti e il prossimo alleabile Giovanni Toti, azzurro governatore della Liguria di tendenza filoleghista, tutti e tre ospiti speciali del Lingotto, per l’apertura della campagna elettorale.
Una variegata truppa - questo l’elemento nuovo - guidata da una leader che va avanti a botte di selfie e slogan pronti per la viralità. Quando non è lei stessa a parlare, Meloni sta sempre curva sul suo smartphone, parecchio curva: che stia seduta, in piedi, in auto, per strada. Si danno scene in cui i militanti aspettano pazienti, attorno a ghirlanda, che lei finisca, tutti congelati nell’attesa come comparse di un film immaginario. I suoi manager social (quasi sempre almeno in due) la seguono ovunque, come ombre in camicia bianca e giubbino di pelle nera: evidentemente indifferenti ai contenuti dei comizi, piuttosto interessati ad alcuni passaggi formali (gli inizi, la fine, gli applausi, la folla).
Un elemento la cui incisività si coglie solo dal vivo, perché poi diventa subito mezzo attraverso il quale passa il messaggio, un cocchio invisibile per arrivare ai social-elettori. Così come sbiadiscono autentici pezzi da teatro dell’assurdo che Meloni è grado di recitare dal vivo («Toninelli, riccioli d’oro, grande fonte di ispirazione per noi, ma anche per voi») e un certo rimasuglio da destra sociale che, preso come base di partenza, le fa elaborare concetti anche piuttosto stralunati, del tipo «c’è un progetto globalista per distruggere la famiglia, le nazioni, tutto ciò che è identità, e trasformare l’umanità in numeri, e rendere ciascuno di noi un mero consumatore, sradicato e manipolabile». Che poi è quello che fa lei stessa, nell’era dei social.
Del resto Meloni si trova all’avanguardia del genere. Già nel 2013 chiedeva alla rete che nome dare al proprio gatto (tra le proposte dell’epoca, un Benny da Benito) e nel 2014 avviava con Salvini quel dialogo che due anni dopo, alle elezioni per il comune di Roma, li avrebbe portati sulla terrazza del pincio a saggiare per la prima volta l’ebbrezza del “Meno male che Silvio non c’è”, già allora con lo smartphone in mano per la diretta, mentre Guido Crosetto, dal retropalco, diceva qualcosa che all’epoca suovava incredibile: «Matteo e Giorgia non vogliono ricucire con Berlusconi. Non vogliono».
Puntavano, già allora, al post. Poi si è messo di mezzo di Maio, e si sa come è andata. Adesso Meloni vorrebbe riprendere quel filo: che poi si faccia davvero, chissà. «La politica è l’arte di mettere insieme i numeri», ha detto una volta Meloni chiarendo l’altezza del suo concetto di politica: «In campagna elettorale si promettono delle cose, a volte poi se ne fanno altre». Dipende. L’importante adesso è ticchettare forsennatamente sul telefono, interrompendosi solo quando magari un vecchio missino le chiede: «Giorgia posso mettere una bandiera di An, come vessillo del passato?», per rispondergli: «Puoi fare quello che vuoi». Tanto, dai social, chi lo vede.