Panama papers, ecco chi ha pagato e chi ancora deve pagare a tre anni dallo scandalo
Il primo bilancio del caso rivelato dall’Espresso e dal consorzio Icij: più di un miliardo già recuperato nel mondo, 30 milioni in Italia. E altri ne arriveranno
Il risultato di questi primi 36 mesi di caccia ai grandi evasori si riassume in una classifica globale delle somme già riscosse dai singoli Stati, tra imposte arretrate e sanzioni, pubblicata in queste pagine. Al primo posto c’è il Regno Unito, che ha incassato 252 di milioni di dollari. Notevoli anche le somme recuperate dalla Germania (183 milioni), Spagna (164) e Francia (135). Perfino la piccola Islanda, che ha appena 330 mila abitanti, ha raccolto oltre 25 milioni di dollari. E l’Italia? La lotta all’evasione nel nostro paese è complicata e rallentata da una congerie di leggi-barriera, termini di prescrizione, cavilli, formalismi, sconti e condoni. Nonostante le difficoltà, anche il fisco di casa nostra ha già incassato quasi trenta milioni grazie ai Panama Papers: per l’esattezza, 29 milioni e 860 mila euro.
Il bilancio complessivo è ancora parziale, perché riguarda solo i Paesi che hanno risposto alle domande dell’International consortium of investigative journalists (Icij). E non comprende i risultati di molte indagini ancora segrete, che riguardano casi di criminalità, mafia, traffici di droga, furti di denaro pubblico o corruzioni politiche. Anche in Italia l’Agenzia delle entrate, interpellata da L’Espresso, chiarisce che il dato finale è destinato a crescere: la cifra di 29,8 milioni, infatti, raggruppa solo le procedure fiscali per cui «non sussistono vincoli istituzionali di riservatezza». grafo1-jpg Come dire che molte altre indagini, tributarie e penali, sono ancora in corso e quindi restano segrete. Per l’Italia va tenuto conto che nel 2016 era ancora aperta la cosiddetta “voluntary disclosure”: un’autodenuncia dei capitali nascosti all’estero, con l’obbligo di pagare tutte le tasse arretrate, premiata con uno sconto sulle sanzioni. Ora si scopre che, subito dopo la pubblicazione dei Panama Papers, almeno 204 cittadini italiani si sono precipitati a fare la disclosure: sono loro ad aver già versato, in totale, quei primi trenta milioni. Altre somme (non quantificate) sono state recuperate con strumenti legali diversi, come il “ravvedimento operoso”. Le indagini più delicate però riguardano più di 200 evasori, smascherati sempre dalle carte di Panama, che invece non hanno mai dichiarato di avere soldi all’estero, neppure con la disclosure. Per questi duecento irriducibili le stangate fiscali sono in arrivo: le autotità italiane hanno già ottenuto documenti societari e conti bancari da quattro paesi stranieri.
In totale la Guardia di Finanza ha identificato 910 italiani che risultano beneficiari di società offshore rivelate dai Panama papers. Per tutti, dall’Italia sono partite richieste di collaborazione indirizzate a 13 nazioni. Nove autorità estere però non hanno ancora risposto. Le indagini comunque continuano: Agenzia delle entrate e Guardia di Finanza lavorano insieme e hanno costituito «unità integrate» proprio per analizzare i Panama Papers.
Le istruttorie più importanti sono coordinate dalle Procure. A Torino i magistrati indagano su una rete di riciclatori di denaro nero, collegata a Panama, che ha portato la Guardia di Finanza a identificare ben «15 mila posizioni», tra persone fisiche e società. Questa maxi-inchiesta, che nel 2016 spinse la Procura a chiedere a L’Espresso l’intero archivio del consorzio Icij, era nata qualche mese prima dall’arresto di un falso invalido: un medico di origine iraniana che, dopo aver truffato circa 400 mila euro all’Inail e alle assicurazioni, trasferì all’estero un quarto del bottino, utilizzando società di comodo create proprio a Panama.
Le offshore scoperte da L’Espresso hanno favorito anche altre indagini penali, come quella sul riciclaggio delle tangenti del Mose di Venezia. O l’istruttoria che ha portato a sequestrare 35 milioni di euro a Gian Luca Apolloni (l’ex socio di Massimo Ciancimino, figlio del defunto sindaco mafioso di Palermo) che era diventato il rappresentante in Italia di Mossack Fonseca, lo studio panamense al centro dello scandalo. Le notizie pubblicate nel 2016 inoltre hanno permesso ai finanzieri dello Scico e ai pm antimafia di Roma di trovare le tesorerie offshore con oltre 42 milioni di euro nascosti a Dubai da Francesco Corallo, il re delle slot machine ora sotto accusa per una maxifrode fiscale da 250 milioni. Oltre che per presunte tangenti versate ai familiari di Gianfranco Fini, l’ex leader della destra italiana fino all’ultimo governo Berlusconi con Forza Italia e Lega.
Panama Papers è il nome dell’inchiesta giornalistica che ha portato oltre 400 cronisti di ottanta nazioni a pubblicare tutti insieme, a partire dal 3 aprile 2016, i dati ricavati dall’immenso archivio di Mossack Fonseca: gli atti riservati di ben 214 mila offshore. Le carte dello scandalo permettono, per la prima volta, di collegare quelle tesorerie estere a molti personaggi eccellenti: 12 capi di stato; 140 politici; 29 imprenditori miliardari; e poi narcotrafficanti messicani, riciclatori della mafia italiana, tesorieri di organizzazioni terroristiche. Tra i nomi più celebri e insospettabili compaiono il padre dell’allora premier inglese David Cameron; il pallone d’oro del Barcellona, Lionel Messi; alcuni familiari del presidente cinese Xi Jinping; Petro Poroshenko, presidente dell’Ucraina fino al 21 aprile scorso; le famiglie reali del Marocco e dell’Arabia Saudita.
Una storia clamorosa scuote anche la Russia: Sergey Roldugin, professione violoncellista, amico personale del presidente Vladimir Putin (nonché padrino di battesimo della sua primogenita), risulta manovrare, attraverso una rete di offshore intestate a fiduciari, almeno 200 milioni di dollari. Bastian Obermayer e Frederik Obermaier, i due giornalisti tedeschi che ottennero l’archivio offshore da una fonte anonima (chiamata in codice John Doe), oggi commentano con ironia, in un’intervista, le risposte fornite tre anni fa dalle autorità di Mosca: «Ci abbiamo riso sopra, soprattutto per la giustificazione fornita da Putin, in diretta televisiva, sui milioni di dollari finiti nelle tasche di Roldugin: tutti quei soldi sarebbero serviti per acquistare strumenti musicali destinati a giovani talenti russi. Violoncelli e chitarre per centinaia di milioni: ci dev’essere un deposito segreto, in Russia, dove vengono stipati tutti questi strumenti».
Tra i primi a pagare per lo scandalo delle offshore, già nell’aprile 2016, spicca l’allora capo del governo islandese, Davíð Gunnlaugsson, che si dimette. I due titolari dello studio panamense, Jurgen Mossack e Ramon Fonseca, vengono arrestati nel febbraio 2017, con l’accusa di aver riciclato una parte delle tangenti di “Lava Jato”, la Mani pulite brasiliana. Nella primavera 2018 lo studio decreta la fine di tutte le sue attività in oltre trenta nazioni. A tutt’oggi le autorità di Panama hanno incamerato 14 milioni di dollari.
Finora sono state avviate indagini in almeno 82 Stati. L’ex primo ministro pakistano Nawaz Sharif è stato condannato a 10 anni (e la figlia Maryam a 7) per due offshore intestatarie di appartamenti di lusso a Londra. Nel gennaio 2019 l’ex presidente del Salvador, Mauricio Funes, è stato accusato, insieme ad altri, di riciclaggio di presunte tangenti per 3,5 milioni di dollari. In Germania sono sono stati aperti oltre duemila fascicoli, che hanno generato almeno 71 processi penali. Nel novembre 2018 il quartier generale della Deutsche Bank a Francoforte è stato setacciato da 170 poliziotti in cerca di carte su circa 900 correntisti, coinvolti in transazioni del valore di 350 milioni di dollari, tutte citate nei Panama Papers. In Australia sono stati assunti 250 ispettori fiscali per approfondire le indagini su 570 sospetti evasori. Alla fine del 2017 in Francia risultavano aperti dalle Procure oltre 500 fascicoli, con almeno 415 indagati: cifra da aggiornare, dopo la creazione una nuova “task force” battezzata proprio Panama Papers. Per la prima volta, anche i grandissimi evasori tremano.