La scrittrice di origine indiana ha riunito in un volume pagine di Moravia, Calvino, Morante, Sciascia. Un puzzle d’autore. Che svela un Paese molto complesso. E un popolo spigoloso ma pieno di umanità «La letteratura italiana vive una età fosforescente. Accoglie autori provenienti da culture diverse. Confonde le categorie. Riflette i tempi: reattivi, esplosivi»

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Dopo aver vissuto in Italia in diversi periodi, il più lungo dei quali di tre anni, Jhumpa Lahiri, una delle più importanti scrittrici americane e d’origine indiana, vincitrice di numerosi premi nel suo paese, ha scritto due libri direttamente nella nostra lingua. Il secondo, “Dove mi trovo”, un romanzo breve, è apparso lo scorso anno, mentre oggi esce, prima in inglese presso Penguin Book, e poi in italiano, un’antologia di racconti d’autori della nostra letteratura alcuni dei quali tradotti da lei stessa. Con un gioco del rovescio sono ora restituiti all’originale. “Racconti italiani” (Guanda) è un libro di oltre 500 pagine, che comprende 40 tra scrittori e scrittrici non più viventi. Ha fatto scelte molto interessanti e impreviste: c’è Moravia, Calvino e Morante, ma anche Antonio Delfini, Alberto Savinio, Umberto Saba, Fausta Cialente, Cristina Campo, Luce D’Eramo e altri.

Una delle cose che colpisce nella prefazione inglese del libro, rivolta a quei lettori, è l’affermazione che l’obiettivo dell’antologia è «fornire un ritratto sincero dell’Italia». Cosa significa questa definizione? E che Italia esce dalle scelte di scrittori e testi che ha fatto?
«Un ritratto sincero nel senso di un dipinto caravaggesco rispetto a una cartolina: un’immagine sobria e complessa che trasmette la folgorazione insieme alle tenebre, la leggerezza insieme alla sofferenza. Volevo portare il lettore al di là degli stereotipi e svelare un’Italia piena di contraddizioni, di umanità profonda ma spigolosa. Credo che l’Italia che si manifesta in questo volume sia un luogo specifico, ma anche provvisorio, perfino onirico, una costruzione abbastanza recente, un concetto ancora da precisare. È un’Italia che subisce una serie di cambiamenti radicali sia politici sia sociali nel corso del Novecento. Un’Italia sconvolta e ferita da due guerre e dall’ombra del Fascismo, un’Italia che cambia, si chiude e si apre, un’Italia un po’ smarrita che si interpella sulla sua identità».

Hai posto in esergo alla introduzione una frase di Primo Levi tratta dalla sua antologia personale “La ricerca delle radici”, dove si parla degli input ibridi che compongono la sua formazione. Non a caso tu ti riconosci in questo aggettivo, “ibrido”. Sei bengalese, americana e anche italiana. Cosa significa esattamente per te ibrido?
«Il termine spiega, giustifica e così valorizza, lo spero, la mia esistenza, la mia essenza, la mia posizione verso il mondo. Senza quel termine sarei in uno stato di crisi assoluto. L’ibridismo riguardo gli incroci, l’atto di mescolare le cose, il rifiuto di riconoscere un elemento solo. È un esperimento che sfida e arricchisce la natura e le nostre tendenze miopi, insiste su specie diverse e sull’atto di rinnovare le cose».

Uno degli aspetti che dici di aver scoperto nel tradurre i racconti italiani in inglese è che la maggior parte di questi scrittori da te scelti oscillava «tra dialetto e italiano standard». Che significato ha per te questo?
«Rappresenta per prima cosa la loro identità linguistica scissa, a cavallo tra una formazione e un’altra, un modo per percepire il mondo e un altro. Stare a cavallo tra le lingue è stato un elemento fondante del loro ibridismo. La necessità di alcuni di dover imparare la lingua italiana per poter scrivere mi ha molto colpita. In generale erano scrittori estremamente sensibili ad “altre parole”. Amavano e apprezzavano le lingue straniere, traducevano, facevano un avanti-e-indietro linguistico continuo. Di conseguenza avevano sempre in testa più di un punto di vista, più di una realtà».

Il fantastico sembra una componente importante nei racconti che hai scelto; ci sono apparizioni e personaggi che prescindono dalla realtà quotidiana, e al contrario anche racconti molto legati alla realtà quotidiana. Come ti sei regolata rispetto a queste due alternative?
«La realtà è sempre una percezione, un’interpretazione. Ho sempre pensato che anche un racconto o dipinto cosiddetto “realistico” sia astratto. Ogni racconto è in fondo un esperimento straordinario: com’è possibile che una serie di parole scritte, simboli e segni astratti, riescano a commuoverci, a cambiarci la vita? Il mio cammino italiano mi avvicina al fantastico, ossia ciò che sovverte la realtà, tutto ciò che sta al confine tra il mondo “obiettivo” e le cose che proiettiamo, elaboriamo, che esistono solo per noi. Todorov ha spiegato che l’esitazione è un elemento cruciale del fantastico. Credo stia parlano proprio dell’esitazione di trovarsi su quel confine e di non sapere con sicurezza come affrontare o interpretare il mondo».

Le donne non sono la maggioranza tra gli autori del libro, e tuttavia sono parecchie. Cosa vuol dire per te donna aver scelto queste scrittrici italiane?
«Ci tenevo molto a creare spazio per le donne e ne avrei messe anche di più. Ma questa percentuale “minore” fa capire un certo squilibrio nel campo letterario almeno del Novecento, e quindi una certa realtà che spero andando avanti si aggiusti per il meglio. Spero che quest’antologia dimostri quanto le donne fossero assolutamente pari agli scrittori maschi. Poi volevo mescolare le prospettive, mettere le donne accanto agli uomini senza né esagerare né diminuire il loro ruolo e il loro contributo notevolissimo. Ci sono tanti ritratti acuti e bellissimi di donne nel volume scritti anche dai maschi, cosa che ci aiuta a ricordare quanto la letteratura possa trascendere la barriera del genere».

Si dice: traduttore uguale a traditore. Ti sembra di aver tradito in qualche modo gli autori volgendoli nella tua lingua, in inglese?
«No. Li ho spostati e trasformati consapevolmente, ho dato loro una vita nuova e diversa in un ambiente linguistico e culturale che non avrebbe potuto avere altrimenti con l’intenzione di presentarli ai nuovi lettori e di prolungare e diffondere le loro voci».

Nella introduzione al tuo libro scrivi di esserti liberata dai vincoli dei canoni culturali stabiliti, immagino che tu ti riferisca alla cultura anglosassone. Sono stati così coercitivi questi canoni? In che modo ti hanno condizionata nel passato? Come scrittrice non eri forse libera di uscire dal canone prima di tutto letterario?
«La lettura è la libertà per eccellenza. Detto questo, sentivo una certa pressione, in dovere di essere al corrente del mondo letterario anglosassone dopo che sono entrata in quel mondo. Quindi leggevo certi giornali e riviste, seguivo i vincitori di certi premi, quasi tutti imperniati sulla letteratura anglofona, che creavano un paesaggio letterario per me claustrofobico, asfittico. Quando ho deciso di leggere in italiano sono riuscita ad allontanarmi e svincolarmi da quei punti di riferimenti e a tuffarmi in una nuova dimensione letteraria in cui ero volutamente forestiera, alleggerita».

L’inglese è stata la tua lingua espressiva e letteraria molto significativa e importante. Ora hai scritto direttamente in italiano due libri, tra cui uno narrativo, che sembra risentire di un autore come Goffredo Parise. E oggi stai scrivendo in italiano altri racconti. Che esperienza è per te questa? E quali modelli o riferimenti hai nella scelta del ritmo della tua prosa italiana?
«È un cammino nuovo che mi chiama e mi stimola, che mi sta portando da qualche altra parte. Devo molto a Parise e ai suoi “Sillabari”, libro poetico, fluttuante, intriso d’incertezza nel quale mi ritrovo completamente. Tanti scrittori in questo volume sono diventati nuovi modelli e riferimenti per me, tra cui Bontempelli, Delfini, Savinio, Cristina Campo, Lalla Romano».

Nella introduzione hai scritto che la fine della Seconda guerra mondiale è stata molto fertile per la letteratura italiana, una età dell’oro della cultura letteraria italiana». E oggi? In che età siamo nella letteratura italiana? Del ferro, del bronzo o di un altro metallo meno nobile?
«Direi in un’età non di un metallo, ma più un elemento tipo fosforo, capace di trasformarsi da uno stato solido in liquido. La letteratura italiana sta anche cambiando, per fortuna riflette e accoglie sempre di più autori italiani che provengono da lingue e culture diversi, cosa che rafforza e il panorama e lo porta in una nuova direzione. Le categorie oggi usate, narrativa, saggistica, auto fiction, eccetera, si stanno anche confondendo. Sono tempi reattivi, anche esplosivi, e la letteratura rispecchia questo clima. Spero che l’età fosforescente ci dia anche un po’ di luce».

Una delle citazioni più lunghe nell’introduzione al volume è una frase di Benito Mussolini, una cosa che colpisce, perché compare là dove affronti il rapporto tra gli uomini e gli animali, una presenza importante nel libro, mi vuoi spiegare perché?
«Ho citato Mussolini perché insiste in quel brano su una barriera netta, in maniera riduttiva e sbagliata, tra il mondo degli uomini e quello degli animali, una visione che viene totalmente negata e sovvertita nell’antologia piena di racconti in cui i due regni sono sempre vicini e promiscui. Ci sono persone che si comportano e si relazionano con gli animali, ci sono animali che sembrano esseri umani, e ci sono un paio di creature - una sirena, un centauro - che incarnano la doppia natura, l’essenza ambigua ed equivoca di tutti noi».

Oggi in Italia il tema del fascismo è tornato in modo prepotente. Tu da americana che è vissuta nel nostro paese e ci vive, e vorrebbe viverci in futuro, cosa ne pensi?
«Penso sia una situazione molto pericolosa, molto pesante che prende fuoco grazie alla paura e all’ignoranza. Ma se ripenso allo spirito di resistenza dalla parte degli autori nell’antologia, che hanno combattuto il fascismo nel secolo precedente, mi torna un po’ di speranza. So che l’Italia è stata capace di superare quella storia, di scegliere la strada giusta, e quindi spero sarà altrettanto capace di superare la deriva xenofobica, il falso patriottismo, e le aggressioni a sfondo razziali di oggi».

Stai per tornare in America, all’insegnamento nella università di Princeton. Con che animo torni in quel paese dominato così fortemente dalla personalità politica di Trump?
«Mi rattrista sempre, prima, lasciare l’Italia. Mi sento esiliata da questo paese quando sono dall’altra parte, nonostante tutti i problemi mi fa bene e mi manca molto. Stranamente è l’unico paese verso il quale ho quest’atteggiamento. Seguo molto a distanza la follia terrificante e deprimente di Trump anche quando vivo in America. Mi butto nell’insegnamento, nel mondo universitario dove mi concentro su una nuova generazione ancora magari da plasmare, e aspetto che la sua permanenza alla Casa Bianca e la sua influenza sul popolo americano passino. Per fortuna, negli Stati Uniti c’è anche una reazione molto forte, gente che si mobilita per contrastare il trumpismo».

Una persona con input ibridi, almeno linguistici, come te, come pronostica il futuro dell’umanità, da scrittrice intendo?
«Sarà tutto da capire. Tira in questo momento un vento liberatorio che mette in discussione la questione identitaria, che valorizza un cammino trasversale e l’identità multipla, e nel contempo tira un vento molto spaventoso in contraddizione con tutto questo. Cito Primo Levi per chiudere e puntare all’unico futuro accettabile: «Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape».